Non cercate giustificazioni: io sono stanco, io sono basso, io sono piccolo, io sto male, io sono infelice. Dite piuttosto: io sono stanco, mi aiuti?
Bebe Vio – Se sembra impossibile allora si può fare
Osservo una società che vorrebbe tendere alla perfezione. I capelli perfetti, i baffi scolpiti, il seno da modella, l’età che vorremmo non passasse; il lavoro sempre al top, mai un errore, mai una sbavatura. In politica tutti perfetti (guai ad ammettere un errore), tutti hanno ragione, come potrebbe essere il contrario?
Dimentichiamo di essere umani, sperimentiamo i nostri limiti quotidianamente eppure tendiamo a nasconderli. I limiti sono la linea gialla da non oltrepassare quando arriva il treno; letteralmente sono dei confini, una linea terminale. Cerchiamo di stare dalla parte dei vincenti, la paura di oltrepassare il divisorio verso la negatività terrorizza molti perché il fallimento non sembrerebbe contemplato, ne accettato. Da qui la fiorente industria dei psicofarmaci.
Perché tentare di mostrare una apparentemente infallibilità e perfezione? Trovare una persona che sappia accogliere i nostri affanni e i nostri limiti, senza che essi diventino terra di conquista, con la quale poter dire in tutta libertà “sono stanco, non ce la faccio”, può essere la vera ancora di salvezza. Sono rare, più preziose dell’oro e del platino.
Consegnare la posta era un bene supremo e astratto al tempo stesso, qualcosa di sacro, proprio come la patria, e per il quale valeva anche la pena mettersi in pericolo. Vedeva quegli aeroplani arrivare o partire. Erano gli alati ambasciatori del cielo. Le lettere contenevano rivelazioni, segreti svelati per la prima volta, a distanza, sentimenti, rabbie covate a lungo, laceranti addii
Romana Petri – Rubare la notte
Qualche giorno fa in classe parlavamo delle lettere. Ho scoperto che molti bambini non saprebbero spedire una lettera e per molti “la lettera” è quella da inviare a Babbo Natale. In parte li comprendo, sono nati in un mondo che gli adulti hanno disegnato come veloce, immediato, in tempo reale.
Raccontavo loro di antiche corrispondenze, con amici e amiche di altre città, generalmente persone conosciute in vacanza. Prima di tornare a casa era necessario scambiarsi l’indirizzo di casa, per una cartolina, una lettera… chissà. Oggi ci si scambia il profilo Instagram, il numero di cellulare, il nickname di Tik Tok. La messaggistica è veloce, rapida, addirittura “controllabile” dalle doppie spunte blu.
Dopo aver raccontato loro la dinamica di una lettera fatta di pensiero, carta accuratamente scelta, scrittura, decorazioni, busta da lettera, francobollo, invio e soprattutto attesa di una risposta mi hanno chiesto di portare in classe una di queste lettere; le lettere richiedevano un tempo disteso, lungo, a volte infinito. Che emozione vedere nella trasparenza della cassetta delle lettere spuntare qualcosa che era facilmente riconoscibile!
Una volta gli aviatori, come Antoine de Sain-Exupéry di cui si racconta la storia nel libro di Romana Preti, trasportavano promesse, saluti, storie d’amore, storie di guerre, confessioni, segreti, affari, amori… Chissà quante ne saranno andate perdute, lasciando incompiuti pezzi di dialogo. Una lettera non recapitata poteva cambiare gli equilibri di una relazione.
Oggi affidiamo tutto alla velocità del web facendo in modo che non ne resti una traccia concreta. Eppure le lettere hanno fatto letteratura, storia, filosofia, addirittura sono diventati testi sacri.
Mi piacerebbe, un giorno, tornare a scrivere lettere vere ai miei amici così come mi piacerebbe riceverne. So che sono il solito anacronistico un po’ sognatore… ma cosa stiamo conservando nei nostri cassetti?
Le case parlano attraverso le luci accese al loro interno. Parlano attraverso le ombre che danzano oltre le tende appese davanti alle finestre. Parlano nello scricchiolio delle assi del pavimento, nell’urto violento di una persiana contro il muro. I panni stesi ad asciugare sono parole.
Silvia Celani – Ogni piccola cosa interrotta
Durante i miei viaggi in autobus o in treno, quando non devo guidare e necessariamente prestare attenzione al traffico, provo un certo piacere nell’osservare l’ambiente cittadino che mi circonda. Il mio sguardo si imbatte spesso nelle centinaia di finestre che ho modo di osservare e che scorrono veloci davanti ai miei occhi.
Provo ad immaginare pezzi di vita al di là delle finestre. Immagino persone che dormono, famiglie che si confrontano, persone che lavorano, che fanno l’amore, che si incontrano, che si lasciano, persone che nascono e persone che soffrono e forse muoiono; bambini che giocano, ragazzi che studiano, uomini e donne che si pongono domande, cercano un senso, una risposta. Persone che sognano, fanno progetti, che aprono le finestre per far entrare la luce.
Dai piani più bassi talvolta si riesce a scorgere anche frammenti di arredamento: colori, luci, quadri, scelta dell’illuminazione, delle tende, fiori più o meno curati che tentano di sopravvivere nelle fioriere. Provo ad entrare all’interno con la fantasia e un pizzico di poesia.
Le case parlano, come scrive Silvia Celani. Parlano attraverso la loro stessa essenza; negli angoli e nelle stanze scorrono pezzi di vita, una scenografia che sembra sempre la stessa in cui mandiamo in scena pezzi di esistenza.
Ho cambiato tante case, in ognuna di esse vivono pezzi di vita, risuonano parole e ricordi. Sono certo che sono ancora lì, a distanza di anni, attaccate ai muri in attesa un giorno, chissà, di poter uscire.
Studiamo (congiuntivo esortativo, qui e sotto) per trasformarci; per darci sempre nuove occasioni di crescita; per non cadere nella noia, nell’insensatezza, nella violenza. Studiamo per capire noi stessi: come ragioniamo, dove sbagliamo, dove eccelliamo; come possiamo migliorarci. Studiamo per capire gli altri. Studiamo per appartenere al mondo; per uscire dalla prigione dell’egoismo e per ritrovarci un po’ più lontano, in compagnia di nuovi amici.
Nicola Gardini – Studiare per amore
Era la domanda delle domande quando ero un giovane studente: ma perché devo studiare? A cosa mi servono le espressioni matematiche, a cosa mi serve conoscere la vita di Luigi XIV o la formula chimica dello zolfo?
Nella scuola che ho frequentato io – fatta esclusivamente di risposte sterili – nessuno mi ha mai dato una reale motivazione per dare un senso a tutta quella fatica, perché sì, diciamolo, gli studenti fanno una fatica immensa.
L’ho capito nel tempo, troppo tardi. L’ho capito ancora meglio nel libro di Nicola Gardini, “Studiare per amore”, un testo che offre diversi stimoli. Se mi avessero detto che studiavo per crescere e trasformarmi, per capire me stesso, per migliorarmi, per capire gli altri, per appartenere al mondo sarebbe stato tutto molto diverso. Forse sarei uscito dal “cosa ci faccio” a “cosa può fare in me” quel tale argomento.
Nei giorni in cui molti studenti stanno per tornare in classe, lascio loro questo messaggio nella speranza che possano trasformarsi come persone in questo anno di studio. Sarà un compito – e in tal caso un merito – di tutti gli insegnanti che trasmetteranno nozioni non per verificare gli apprendimenti ma per contribuire a trasformare delle persone. E il futuro.
Non dimenticherò mai l’ultima volta che sono stata in Venezuela, una famiglia molta ricca ci donò un terreno per costruire una casa per i bambini. Quando andai per ringraziarli scoprii che il primogenito di quella famiglia era gravemente disabile. Domandai alla madre: «Come si chiama il bambino?». E lei rispose: «Professore d’amore. Perché questo bambino ci insegna continuamente come tradurre il nostro amore in azione». Apparve un bellissimo sorriso sul volto di quella madre. «Professore d’amore»! Perché da quel bambino gravemente disabile – sfigurato – essi imparavano ad amare.
Madre Teresa, il miracolo delle piccole cose
“E’ una ragazza speciale”. Con queste parole è stato suggerito ad Antonello Venditti di fare un passo indietro dopo aver insultato pesantemente una donna con disabilità, imitandone addirittura i versi.
Non entro in merito alla cronaca e nemmeno mi permetto di giudicare. Mi limito solo a dire che evidentemente il noto cantautore romano non conosce chi sono i ragazzi speciali, forse non li ha mai frequentati o mai presi in considerazione.
Questa frase di Madre Teresa di Calcutta, tratta dal libro “il miracolo delle piccole cose” ci riporta con i piedi a terra. Un bambino speciale è un professore d’amore, è ciò che mi ricordano i miei piccoli professori d’amore che incontro nelle aule. Se li sappiamo accogliere nella nostra vita e considerarli un valore possono aiutarci a trasformare le nostre azioni in gesti d’amore, facendoci diventare persone migliori.
Chi li vede come un peso sa guardare con gli occhi del cuore, deriderli è da persone meschine, inqualificabili.
Non sarebbe più bello se tutto fosse come la musica, se tutto funzionasse senza fili? Anche noi due?
Tutto. La vita, le relazioni, gli amori, il sesso, le amicizie, la famiglia, il lavoro, le ossessioni, le gioie, i trionfi. L’estasi. Tutto senza fili. Non sarebbe bello se il mondo funzionasse così? Senza nodi né inciampi? Senza costrizioni. Senza appigli né incastri. Senza i fili della memoria, senza fili del tutto.
Alessandro barbaglia, l’invenzione di eva
Ho sempre apprezzato la scrittura di Alessandro Barbaglia, leggo i suoi libri con molto interesse, li trovo vivaci, mai banali, ben scritti e con delle storie che hanno la capacità di catturare il lettore. Non ha deluso le mie aspettative “L’invenzione di Eva”, che racconta la storia di Hedy Lamarr, la donna più bella del mondo all’inizio del ‘900, la prima attrice a girare una scena di nudo nel cinema degli anni ’30, geniale, trasgressiva, diva. I disegnatori di Biancaneve e di Wonder Woman si ispirarono alla sua bellezza per trovare l’icona di bellezza perfetta.
Ma non è tutto. Hedy Lamarr era anche una inventrice e… che inventrice! Se oggi con i nostri telefonini cerchiamo il wi-fi per una navigazione veloce lo dobbiamo a questa donna, capace di intuizioni geniali quanto inverosimili per il suo tempo; non veniva presa sul serio perché era donna, perché era bella e perché in fondo era una che aveva girato una scena di nudo. Hedy però non ha desistito, convinta – sempre – delle sue scelte.
Il libro lo lascio alla curiosità dei lettori, che spero di aver stuzzicato.
L’estratto che riporto in questo articolo ha catturato la mia attenzione. Hedy Lamarr pronuncia queste parole quando da bambina il padre la porta a vedere uno dei primi tram nella sua Vienna. Sembrava un mezzo di trasporto all’avanguardia, la bambina però rimane apparentemente delusa. Perché? Perché il tram aveva i fili elettrici… Colui che osserva è colui che sa vedere oltre, trova un senso esistenziale anche in un’invenzione.
Vivere senza fili, senza nodi nè inciampi (chi di noi non si esaurisce quando vede tutti i cavi intrecciati?), senza costrizioni, senza nulla che possa incastrarci: un concetto da estendere alle nostre relazioni, fatte spesso di formalità, frasi fatte, gesti scontati a volte di circostanza. Sarebbe bello avere un’unica connessione nei cuori, capace di uscire da ciò che impedisce una relazione sincera e vera.
Hedy Lamarr anche in questo aveva visto molto altro, come sempre.
“Più del giorno ti stupirà la notte. E’ un grande grembo stracarico di luci. Nelle sere d’estate qualcuna si stacca e viene vicino, fischiando. In mezzo a loro passa una via bianca, un siero di latte, quando lo vedrai vorrai succhiarlo. Pensa che io sono una di quelle luci e intorno a me c’è un ammasso di altre. Così è la notte, una folla di madri illuminate, che si chiamano stelle: di tutte loro, solo io la tua. A guardarle fanno spalancare gli occhi e allargare il respiro. Ma tu non sai ancora cosa è, il respiro. E’ questo su e giù del petto che ti dondola”.
Erri de Luca – In nome della madre
Da sempre guardiamo al cielo: come speranza, come luogo di pace, di infinito, sede della divinità. Lo guardiamo per innamorarci, per ricordare, per perderci nell’infinito.
Quando perdiamo una persona cara la immagiamo una di quelle tante stelle che vediamo in cielo. Immagine poetica e suggestiva.
In queste notti d’estati guarderemo al cielo ed ognuno penserà a quel che vuole, affiderà al cielo un desiderio o spererà di incrociare la carezza di uno dei nostri cari.
Il cielo è una folla di madri illuminate, come dice con profonda maestria Erri De Luca. Immaginiamolo così per una volta; lassù ci sono delle madri, c’è la mia, ci sono le madri del mondo che per una notte ci sfioreranno con il loro bagliore.
L’arte è tutto ciò che si oppone all’abitudine: questo vizio mostruoso che frena i nostri sensi e ci impedisce di vedere quanto c’è di nuovo e vitale. I bambini non soffrono l’abitudine, saltano nelle pozzanghere, fanno le buche nella sabbia, amano il pane fresco e gli aghi di pino sotto i piedi. Noi adulti siamo imbarazzati dalle cose semplici ed ecco perché cerchiamo surrogati, la fama, il successo, l’amore, dimenticando le passeggiate in pineta verso il mare. Il fatto è che la vita non la si può capire, al massimo la si può sentire. E i pini sono come Proust, allenatori perfetti, artisti senza saperlo
Antonio pascale – la foglia di fico
Nel periodo estivo, all’arrivo di un tempo vacanziero, si rompono le abitudini. “L’abitudine è una brutta bestia, un parassita che lentamente infesta” cantava Gianni Morandi, nella canzone “Apri tutte le porte”.
Rompere le abitudini può essere una grande occasione per gustare l’arte che è, appunto, rottura delle abitudini, delle consuetudini, dei luoghi comuni. Una passeggiata in riva al mare, in montagna, in un antico borgo o dove volete voi può diventare un modo per rallentare; dimenticare il lavoro e tutti i surrogati di cui ci riempiamo come la fama e il successo citando Antonio Pascale nel suo libro “La foglia di fico”.
Il tempo estivo può diventare un tempo di arte. Sta a noi rompere le abitudini, respirare un’aria nuova: per farlo sarà necessario spalancare i polmoni. Tornare alle nostre abitudini non avendo dato valore ad una passeggiata in pineta, al canto delle cicale, a un dondolo che dondola, sarà come aver perso l’occasione per far entrare l’arte dentro di noi.
Immagine: Edward Hopper, Second story sunlight (1960; olio su tela, 102,1 x 127,3 cm; New York, Whitney Museum of American Art)
“Il teorema del peluche, anche se cosí è troppo generico perché nessuno chiama peluche il peluche ma gli dà un nome – monito questo a non essere mai generici e astratti nelle faccende sentimentali e logiche –, dovrebbe avere per enunciato È vivo ciò che ci sembra vivo o anche, in una formulazione piú ampia, è vivo tutto ciò che suscita in noi sentimenti di amore, consolazione, disapprovazione, odio (aggiungete a piacere) e relativi movimenti del corpo piú o meno percettibili. È vivo ciò che ci sommuove, commuove, turba e perturba, ci sposta o devia dallo stato in cui siamo”
Chiara valerio – la tecnologia è religione
Guardo gli oggetti intorno a me. Nel mio studio dove scrivo, lavoro, suono e dove passo gran parte del mio tempo domestico, ce ne sono tanti. Oltre ai libri, al pc, alla cancelleria, ci sono le mie chitarre, strumenti per suonare che già da soli contengono più di una storia; la mia vita è scolpita sui miei strumenti che mi accompagnano fin dall’adolescenza.
C’è poi un angolo, piccolino, dove sostano strani oggetti: la maggior parte a tema musicale, ma non solo. Li osservo spesso e come faccio con tutti gli oggetti che incontro, mi parlano, mi suscitano un ricordo, un’emozione, un incontro, una storia. Mi ricordano persone care, amici, bambine e bambini. Cerco di non accumulare, non solo per motivi di spazio, ma anche perché non posso saturare il mio personale contenitore di emozioni. Ovviamente non conservo ciò che mi provoca dolore.
E’ vivo ciò che ci sommuove, commuove, turba e perturba: ha ragione l’autrice del libro “La tecnologia è religione”, Chiara Valerio. Ogni oggetto che conservo – apparentemente dalla forma e dal valore insignificante – muove in me un’emozione. Non riesco a farne a meno di approcciarmi alle cose con questa modalità.
Da oggi la chiamerò “teoria del peluche” perché un oggetto può andare oltre quello che rappresenta. Almeno per me.
“Andrè, dimme de Immobile, che ne pensi?”. E’ la domanda di un amico tifoso che ho incontrato per strada. Tra gli sportivi di fede laziale non si parla d’altro, Immobile che lascia la Lazio è un colpo che non ci aspettavamo. Almeno non con questo impatto.
“Non esistono più le bandiere” è una frase retorica che si dice in questi casi; quei giocatori simbolo che hanno deciso di trascorrere tutta la loro carriera in una squadra soltanto sono merce rara, appartenuti ad un calcio che non c’è più. Raramente vediamo calciatori restare a lungo in un team.
Il tifoso però si affeziona ai propri idoli, perché abbiamo bisogno delle persone in cui credere e a cui aggrapparci: abbiamo bisogno di un capitano, di un cantante, di un eroe reale o inventato, di uno scrittore, di un pittore, di un maestro, di un innocente come di un colpevole, qualcuno a cui affidare una speranza, un sogno. E così ci leghiamo: ai cantanti, ai calciatori, agli eroi… fin da bambini, per tutta la vita questo non cambia.
Ed ora che il nostro ex-capitano ha deciso di chiudere la carriera in Turchia sentiamo un vuoto dentro; lo sentivamo uno di noi, un romano adottato, a cui molti di noi erano legati, come un ragazzo della porta accanto, quel capitano che fa sempre gol. Però ho imparato che non bisogna mai fidarsi dei baci alla maglia, delle dichiarazioni d’amore alla tifoseria, ne ho visti tanti andare via. Tuttavia con Immobile avevo fatto un’eccezione: un bambino a scuola mi aveva regalato la sua figurina e quella maglia 17 faceva da sfondo alla cover del cellulare. Ne andavo fiero, provavo la spavalderia di quando bambino… Al termine dell’ultima partita di campionato – durante un giro di campo di Immobile con figli al seguito – ho scattato la foto che vedete, non potevo immaginare fosse l’ultima.
Si va avanti lo stesso. Certo, vorremo un po’ di poesia ogni tanto, sapere che i soldi e il successo talvolta possono essere secondari, soprattutto per chi guadagna cifre importanti. Non è così, è doveroso tornare con i piedi per terra.
Torneremo ad innamorarci di un calciatore che crederemo un simbolo, forse.
“C’è una domanda che mi ossessiona. Non è facile formularla. È indiscutibilmente oziosa, forse perfino stupida, ma non c’è niente da fare, brucia. Somiglia a un livido persistente. La tocchi, fa male. Che cosa ricordano, gli altri, di noi?”
paolo di paolo, romanzo senza umani
Ho appena terminato la lettura dell’ultimo libro di Paolo Di Paolo, autore che non conoscevo nonostante la fiorente produzione passata. Un libro davvero particolare, difficile da raccontare e da riassumere, consigliato per intensità e stile letterario. Il protagonista, Mauro Barbi, è uno storico che ha dedicato molti studi ad una glaciazione avvenuta nel tardo Cinquecento nel Lago di Costanza in Germania; la sua ossessione però non è solo studiare il fenomeno metereologico quanto cercare nel suo passato persone che non vedeva più da molti anni. E si mette alla ricerca, in modo originale, di persone che hanno significato qualcosa nella sua vita; nomi conservati silenti nel suo cuore che prova a svegliare mosso da una stuzzicante domanda: cosa ricordano, gli altri, di noi? E’ questa domanda che muove il romanzo.
Mi sono chiesto, durante la lettura, quante sono le persone che abitano in una mansarda dei miei ricordi; nomi e volti che hanno rappresentato qualcosa nella mia vita, che mi hanno lasciato una frase, un pezzo del proprio vissuto, un abbraccio, un bacio, una carezza. Nomi e volti che vivono silenti nel mio cuore. Cosa ricordo di loro e loro cosa ricorderanno di me?
E’ una domanda che fa parte dei misteri della nostra esistenza, di quel vissuto di cui non sapremo mai, la cui risposta aleggia nell’aria, scritta nelle anime con un inchiostro a tratti visibile. A meno che, come ha fatto Mario Barbi, non decidiamo di riaprire i contatti, mettendo in conto i rischi del caso.
“Ai bambini e alle bambine che ho incontrato devo tutto quello che sono, tutto quello che so, tutto quello che ho capito, tutta l’umanità che ho recuperato e quella in me che ho curato”
emy mignanelli, l’età dimenticata
Si è concluso da poco un altro anno scolastico. Arriva il tempo del silenzio, dopo il chiasso dei corridoi, delle aule, del refettorio, del giardino, della palestra per un insegnante è ora del silenzio. Non solo assenza di rumore ma anche di assenza di parole, risate, battute, condivisioni, riflessioni, tante riflessioni. E’ un tempo da tanti invidiato, per me un tempo fermo, dove rigenerare le forze, pensare e progettare. Un tempo necessario – per me anche troppo lungo – perché la stanchezza è il pericolo più subdolo quando si educa.
Faccio mia questa frase molto bella tratta da un libro di Emy Mignanelli, “L’età dimenticata”, lettura che consiglio nel periodo estivo. Ai bambini e alle bambine devo quello che sono, che so, che ho capito e l’umanità che ho vissuto sulla mia pelle è stata da stimolo e cura, lascia in me ancore a cui aggrapparmi nel navigare della vita. Una umanità delicata come petali. Perché in fondo i bambini non sono altro che petali di vivaci fiori.
E’ iniziato il tempo estivo. Mi reco al fruttivendolo e tra la tanta merce esposta una più delle altre attira la mia attenzione. Sono i cocomeri, come li chiamiamo a Roma; meno attraente è il nome anguria, suggestivo in napoletano “melone d’acqua”. Mi soffermo a guardarli e con estrema delicatezza dò un colpetto o una carezza a quei gusci rotondi e lisci.
Il loro arrivo in casa viene associato ad un momento gioioso, l’arrivo del caldo e l’esperienza di poter gustare un frutto saporito e povero di zuccheri, l’ideale per idratarsi. Per gustarlo deve fare caldo, non mangerei mai una fetta di cocomero in inverno. I cocomeri suscitano in me tanti ricordi: estate, caldo, festa, freschezza, sapore, gente, allegria.
Partiamo dal più antico e più tenero. Mio padre la domenica mattina mi portava da un certo “Peppone”, personaggio singolare, fruttivendolo barese che aveva un banco di frutta a Viale di Tor di Quinto. Tanta buona frutta ma soprattutto una piramide di cocomeri accatastati, mentre alcuni erano immersi in una grande vasca d’acqua. Era Peppone – che la domenica pomeriggio ritrovavamo “bagarino” allo stadio – a scegliere il più buono. Il cocomero è papà la domenica mattina, ricordi di un tempo trascorso insieme.
Sempre con mio padre e la mia famiglia avvenne un episodio divertente. In viaggio verso un paese marchigiano, ci fermammo lungo la strada per una sosta. Mio padre fu attratto da un cartello: “cocomeri 350 lire”. Un ottimo prezzo, pensammo, la media era intorno ai 1000 lire. Mio padre si precipitò e pagò poco più di 7.000 lire. In macchina si chiese quanto potesse pesare un cocomero per aver pagato così tanto. Leggendo bene il cartello, tutto storto sotto al prezzo c’era scritto: “350 lire al mezz kil”. Un genio!
Ripenso ad un’estate a Tarquinia con la mia famiglia. Era ferragosto e – per tradizione – ero io a dovermi occupare del cocomero. Per l’occasione ne trovai uno enorme, quasi 20 kg! Oltre ad offrirlo a tutti dovevo anche tagliarlo, rigorosamente nel senso della larghezza e non della lunghezza. Ancora oggi se vedo un cocomero intero dico “fermi tutti, faccio io, è mio!”. Mi piace sentire lo scrocchiare e il profumo che mi invade.
Impossibile dimenticare un cocomero turco. Sì… servito da un cuoco turco su una delle navi in cui mio zio era proprietario, battente bandiera turca. Ricordo che al termine della cena il cuoco si presentò a tavola con un cocomero interamente scavato a forma di cestino. All’interno frutta fresca con cubetti di ghiaccio, una meraviglia da vedere e da gustare.
Tante volte mi sono fermato a mangiarlo per strada, come si fa a Roma nelle notte estive. Ricordo una sera che con mio fratello ne comprammo uno intero; assetati e accaldati non resistemmo ad aprirlo subito, anche se non era ancora fresco ne divorammo tre fette con una foga mai vista, del resto era dolcissimo!
Famoso è un cocomero disperso nel Mediterraneo… Il mio amico Mauro avrebbe voluto mangiarlo fresco e per questo lo mise in riva al mare, pensando di averlo fissato bene. E invece, il cocomero ribelle, ha deciso di iniziare la sua navigazione facendo perdere le tracce. Ancora oggi scherziamo sperando di ritrovarlo da qualche parte…
Il cocomero mi dà un senso di gioia, di compagnia e di festa. Meno avvolgente è consumarlo da soli.
Mi piacerebbe visitare un campo di cocomeri, come Linus che aspetta il “grande cocomero”. Chissà, forse anche io potrei affidare un desiderio e aspettare una fetta come ricompensa…
Non ci resta che aprire il frigorifero, tagliarne una fetta e decretare che è iniziata l’estate.
“La letteratura si è dotata dell’onnipotenza della descrizione. Non ci fossero più nuovi libri, ce ne sarebbero comunque a sazietà. Perché aggiungerne altri, se tutto è già stato narrato? La mia risposta è: variazioni. La letteratura è l’infinita redazione di varianti.
Continuiamo a leggere paesaggi, personaggi, avvenimenti dalle nuove, disparate e disperate angolazioni. Un diamante ha cinquantotto facce, la persona umana molte di più”
erri de luca, discorso per un amico
Girando per gli scaffali di una libreria vedo tanti volumi. A volte penso troppi. Perché si scrivono così tanti libri? A parte per gli scrittori professionisti che hanno il privilegio di “vivere” di scrittura, per molti credo sia più una passione, come nel mio caso.
Nonostante veda centinaia di titoli, non resisto ai libri di Erri de Luca. “Discorso per un amico” è una deliziosa storia di amicizia tra lo scrittore napoletano e Diego, compagno di scalate e arrampicate. Mi sono perso tra le delizie di queste pagine, dei racconti che ne sono nati dove le parole vengono scelte con cura e attenzione.
Tra le tante pagine sottolineate ho scelto questo pensiero. Scriviamo per variazioni, perché abbiamo infinite facce da esplorare, molte di più di un diamante. Ed Erri de Luca in questo libro ci fa scoprire la meraviglia della montagna più intima, più profonda, dove tutto sembra formare un disegno capace di avvolgere l’uomo in tutte le sue dimensioni, umane, intime, spirituali.
Se siamo amici, è come se ci prendessimo cura entrambi di una piantina. La innaffiamo quando ha sete, la mettiamo al riparo quando ha caldo. Teniamo il terreno sgombro intorno a lei perché non crescano le erbacce. Nel farlo non ci chiediamo se, con il tempo, quel germoglio diventerà un fiore, un arbusto o un albero. Ciò che ci rende felici è sapere che, se uno di noi due un giorno non potrà portare l’acqua per dissetarla, sarà l’altro a farlo. Non ci sarà arsura capace di ucciderla. Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?
Susanna Tamaro, Il tuo sguardo illumina il mondo
L’amicizia è cura, come una piantina da innaffiare e riparare, custodire e proteggere. E’ sicurezza che l’altro – in virtù di questo nobile sentimento – ci sarà sempre, soprattutto nel momento del bisogno; la vera amicizia non teme arsura, probabilmente neanche le distanze, seppur necessita di una minima presenza.
Eppure ogni tanto i social per definire dei contatti che avvengono tra persone usa l’espressione “amicizia”, “hai una proposta di amicizia in arrivo”… Un termine assolutamente fuori luogo: quelle che noi definiamo amicizie social li definirei più “contatti” o “followers”. Dietro una richiesta di amicizia può nascondersi chiunque: una persona ben intenzionata così come qualcuno che vuole infiltrarsi nella vita degli altri per ficcare il naso, cercare una traccia non ben identificata, soddisfare una curiosità morbosa. Certe persone che non hanno la mia stima non voglio essere “amico”, neanche sui social.
Bisognerebbe ridare dignità ad un termine così bello. “Ti richiedo l’amicizia” non può funzionare, perché la vera amicizia è altro. Ultimamente ho sperimentato gesti di amicizia molto belli, così come qualche delusione nella vita reale e non sui social. Evidentemente non erano amici.
Un vero amico non ti cerca sui social: nella vita reale – l’unica per la quale dobbiamo spenderci – non c’è il giudizio, piuttosto al cura, la protezione, il perdono.
Oggi è il 12 maggio. Non una data qualsiasi. Almeno per chi è laziale. Esattamente 50 anni fa la mia squadra del cuore vinceva il primo scudetto della sua storia. Ed io dov’ero? Cosa ricordo di quella giornata? Niente, non ricordo niente perché ero nel pancione di mia madre, mancavano 5 mesi alla mia nascita, dovevo essere lungo più o meno 22 centimetri… troppo poco ma abbastanza per cucirmi quello scudetto addosso.
Quando sono nato, ad ottobre, la mia squadra giocava con il tricolore sul petto e anche se io non lo sapevo, simbolicamente, ce l’avevo cucito sulla tutina.
Di quella squadra ho solo i ricordi di chi l’ha vissuta e ciò che sono riuscito a ricostruire nel tempo, sia dal punto di vista sportivo che sociale. Erano gli anni della Roma di piombo, del terrorismo, di una svolta del nostro Paese che era nella fase calda; dopo il ’68 c’eravamo noi degli anni ’70, c’ero io, piccolo e inconsapevole di quanto succedeva accanto a me.
Della Lazio di Maestrelli ricordo il poster in casa, con quegli undici giocatori accasciati, il pallone bianco con i pentagoni neri. Una foto semplice. Tra i tanti spiccava Chinaglia, ma soprattutto un angelo biondo, Luciano Re Cecconi di cui mio padre mi raccontava le gloriose gesta sportive e il suo tragico epilogo. Mi parlavano del dolore di mio fratello una volta appresa la notizia della sparatoria in cui perse la vita per un tragico scherzo. Di Maestrelli ricordo un disco 33 giri in cui c’erano le voci storiche di quello scudetto e lì si parlava di lui, di quella squadra così matta eppure così affascinante. Il resto l’ho ricostruito negli anni con i documentari e le interviste dei protagonisti di allora.
Mio padre seguiva gli allenamenti da vicino, viveva quella squadra e quel calcio in modo attivo. I tifosi erano i veri supporter, non erano clienti da spennare.
Poi sono cresciuto e quello scudetto sul petto era solo un vago ricordo mentre io, circondato da romanisti che festeggiavano lo scudetto ed una squadra stellare, soffrivo per una squadra che faceva su e giù dalla A alla B. Era difficile essere un bambino laziale a quel tempo, ma ho resistito, non potevo tradire quei colori e la lazialità di mio padre e della mia famiglia.
Oggi si ricorda quella giornata; simbolicamente torno nel pancione di mia madre, per godermi quei suoni attutiti della festa. Tornerò a nascere, tornerò a cercare quella squadra, quei campioni che mi hanno fatto nascere con il tricolore sulla tutina!
Mattina di primavera, ore 8.20. Frettolosamente mi avvio per non arrivare tardi a scuola, preso dai miei soliti pensieri, il cellulare impazzito di messaggi; non è la solita routine, stamattina sembra molto peggio.
Lungo il marciapiede incrocio una mamma ed una bambina che si recano alla scuola dell’infanzia. Potrebbe essere una scena come tante. Eppure, in questo frammento che i miei occhi decidono di catturare, c’è qualcosa di speciale.
Come faccio spesso mi incanto a guardare i bambini molto piccoli; la bimba di circa quattro anni che la mamma teneva per mano, procedeva lenta, lentissima. Ben pettinata e sistemata teneva tra le braccia un tenero orsetto, compagno di giochi e probabilmente rifugio consolatorio nel momento del distacco dalla mamma. Mentre io correvo affannato, la bimba si godeva il suo passo lento e la tenerezza di quell’abbraccio all’orsetto.
Mi sono rivisto bambino. Mi sono chiesto se anche io avessi un oggetto a cui tenermi stretto; la mia memoria non me ne ha presentato uno in particolare. Mi sono anche domandato cosa potrei portare oggi, a quasi cinquant’anni, come oggetto “consolatorio” davanti agli affanni della vita. Anche qui non saprei cosa scegliere, di solito gli oggetti non hanno valore se non legati al ricordo di una persona.
Credo che la ricchezza e la consolazione che portiamo dentro possiamo attingerla dagli incontri, dalle strade che percorriamo sempre con le stesse scarpe, da quella voglia di infinito che cerco in un tramonto, nella Luna e nelle stelle.
Alla domanda “quale cosa vi dà veramente gioia?” posta poco dopo ai miei alunni di quarta, mi ha colpito la risposta di Aurora: “poter parlare con qualcuno di cui mi fidi e dire ciò che penso”.
E’ un timido pomeriggio di aprile, l’ora del tramonto. Con l’arrivo della bella stagione riconquisto spazi, energie e momenti che solo la primavera sa offrire. Riapro la sdraio, un tiepido sole mi scalda dopo una improvvisa coda autunnale. Ho con me il mio e-reader, leggo quasi esclusivamente in formato digitale per praticità.
Guardo i miei fiori. Non ho tantissime piante, con quelle che ho provo a dare colore allo spazio esterno; cerco la giusta esposizione, godo dei colori, annaffiarle è un segno di ringraziamento alla natura.
Tra poco arriverà il grande caldo; si starà fuori solo nelle ore più fresche, prevalentemente la sera. Sarà impossibile stare tranquilli in piena estate nell’ora del tramonto, a patto che uno sia immune dall’attacco delle zanzare.
Credo che il mese di aprile costituisca una grande promessa. I primi germogli e i primi fiori sanno guardare avanti, scandire il tempo, non guardano al passato ma ad una nuova stagione che sta per iniziare.
Dovremmo fare come i fiori, confidare nei primi germogli, cercare di fiorire – perché questo devono fare -, splendere nel momento migliore ed accettare che arriverà il tempo in cui, per natura, i petali dovranno cadere. Oppure fare come è successo la scorsa estate in un vaso: una surfinia ha convissuto pacificamente in piena estate con un tenace ciclamino, creando una alchimia inaspettata. Due diversità che hanno accettato di farsi ombra reciprocamente.
Me lo ricordo quell’insegnante. Sì, me lo ricordo perché un vero insegnante sa in-segnare una vita e quel tocco magico non se ne va più.
Me lo ricordo quell’insegnante che, poco più che bambino, mi affascinò con il carisma, perché solo quelli veri hanno carisma.
Me lo ricordo quell’insegnante che un giorno perdonò una mia acerba ingerenza: solo quelli veri sanno mettere davanti la gentilezza e la dolcezza.
Me lo ricordo quell’insegnante che metteva al primo posto i suoi allievi, mai se stesso. E’ dote rara di chi si sente al servizio e mai servito.
Me lo ricordo quell’insegnante che mi ha accompagnato per lunghi anni della mia vita, ascoltandomi, rispettandomi e aprendo il suo cuore.
Me lo ricordo quell’insegnante che, una volta cresciuto, riuscì a trasformare l’insegnante in un amico, perché le differenze di età le persone vere non le calcolano proprio.
Me lo ricordo quell’insegnante che tornò ad insegnarmi, una volta cresciuto, con la stessa passione e carisma di un tempo: anche se un po’ arrugginito un vero maestro non perdere mai lo smalto per ciò che ama.
Me lo ricordo quell’insegnante che mostrò i suoi punti deboli dell’anima, perché sapeva essere uomo prima che qualsiasi altra cosa.
Me lo ricordo quell’insegnante che ho accompagnato fino alla partenza da questa terra; insieme c’erano i suoi allievi perché un vero maestro unisce e riunisce.
Me lo ricordo quell’insegnante. Certo che me lo ricordo perché ho avuto l’onore di essergli al fianco.
Me lo ricordo quell’insegnante portandolo con me ogni giorno, nella speranza di essere solo una briciola della sua grandezza.
Me lo ricordo quell’insegnante perché persone così toccano una vita e segnano un’esistenza.
«Ma perché proprio il portiere?» . Andrea fu come se si illuminasse: «Perché è diverso da tutti gli altri, è folle ma anche un po’ solo. Perché è come un principe con il suo regno: gli altri si azzuffano per il campo, lui invece è il signore del suo spazio, è libero, non dipende da nessuno. E poi è piú facile segnare che parare e a me piacciono le cose difficili».
Roberto vecchioni, tra il silenzio e il tuono
Dei tanti ruoli che si possono occupare nel rettangolo di gioco, il portiere si distingue dagli altri: per la divisa, per la posizione, perché può toccare il pallone con le mani, perché spesso è lì da solo, l’ultimo baluardo della squadra, colui in cui tutti i tifosi ripongono la speranza della parata miracolosa.
Nell’ultimo libro di Roberto Vecchioni “Tra il silenzio e il tuono”, in una delle tante deliziose lettere, si parla di Andrea, che aveva scelto il ruolo del portiere. Colui che deve fare le cose difficili, perché parare è più difficile di segnare. Sarà, ma quando da piccoli chi finiva in porta era il più debole della squadra, quello che non ci voleva mai stare perché un gol passa alla storia, una parata decisamente meno. Addirittura una papera può togliere il sonno per diverse notti, forse per anni.
Mi soffermo spesso a guardare il portiere: immagino i suoi pensieri, deve riporre molta speranza nella difesa capace di neutralizzare gli attacchi degli avversari, così come deve affidarsi a tecnica, istinto e un po’ di pazzia. Sì, perché per stare lì a farsi prendere a pallonate ci vuole coraggio e un pizzico di follia. Faccia a faccia, senza paura.