Perchè la vita merita di essere raccontata

Categoria: bambini

Perché studiamo?

Studiamo (congiuntivo esortativo, qui e sotto) per trasformarci; per darci sempre nuove occasioni di crescita; per non cadere nella noia, nell’insensatezza, nella violenza. Studiamo per capire noi stessi: come ragioniamo, dove sbagliamo, dove eccelliamo; come possiamo migliorarci. Studiamo per capire gli altri. Studiamo per appartenere al mondo; per uscire dalla prigione dell’egoismo e per ritrovarci un po’ più lontano, in compagnia di nuovi amici.

Nicola Gardini – Studiare per amore

Era la domanda delle domande quando ero un giovane studente: ma perché devo studiare? A cosa mi servono le espressioni matematiche, a cosa mi serve conoscere la vita di Luigi XIV o la formula chimica dello zolfo?

Nella scuola che ho frequentato io – fatta esclusivamente di risposte sterili – nessuno mi ha mai dato una reale motivazione per dare un senso a tutta quella fatica, perché sì, diciamolo, gli studenti fanno una fatica immensa.

L’ho capito nel tempo, troppo tardi. L’ho capito ancora meglio nel libro di Nicola Gardini, “Studiare per amore”, un testo che offre diversi stimoli. Se mi avessero detto che studiavo per crescere e trasformarmi, per capire me stesso, per migliorarmi, per capire gli altri, per appartenere al mondo sarebbe stato tutto molto diverso. Forse sarei uscito dal “cosa ci faccio” a “cosa può fare in me” quel tale argomento.

Nei giorni in cui molti studenti stanno per tornare in classe, lascio loro questo messaggio nella speranza che possano trasformarsi come persone in questo anno di studio. Sarà un compito – e in tal caso un merito – di tutti gli insegnanti che trasmetteranno nozioni non per verificare gli apprendimenti ma per contribuire a trasformare delle persone. E il futuro.

I bambini speciali

Non dimenticherò mai l’ultima volta che sono stata in Venezuela, una famiglia molta ricca ci donò un terreno per costruire una casa per i bambini. Quando andai per ringraziarli scoprii che il primogenito di quella famiglia era gravemente disabile. Domandai alla madre: «Come si chiama il bambino?». E lei rispose: «Professore d’amore. Perché questo bambino ci insegna continuamente come tradurre il nostro amore in azione». Apparve un bellissimo sorriso sul volto di quella madre. «Professore d’amore»! Perché da quel bambino gravemente disabile – sfigurato – essi imparavano ad amare.

Madre Teresa, il miracolo delle piccole cose

“E’ una ragazza speciale”. Con queste parole è stato suggerito ad Antonello Venditti di fare un passo indietro dopo aver insultato pesantemente una donna con disabilità, imitandone addirittura i versi.

Non entro in merito alla cronaca e nemmeno mi permetto di giudicare. Mi limito solo a dire che evidentemente il noto cantautore romano non conosce chi sono i ragazzi speciali, forse non li ha mai frequentati o mai presi in considerazione.

Questa frase di Madre Teresa di Calcutta, tratta dal libro “il miracolo delle piccole cose” ci riporta con i piedi a terra. Un bambino speciale è un professore d’amore, è ciò che mi ricordano i miei piccoli professori d’amore che incontro nelle aule. Se li sappiamo accogliere nella nostra vita e considerarli un valore possono aiutarci a trasformare le nostre azioni in gesti d’amore, facendoci diventare persone migliori.

Chi li vede come un peso sa guardare con gli occhi del cuore, deriderli è da persone meschine, inqualificabili.

Bambini e petali

“Ai bambini e alle bambine che ho incontrato devo tutto quello che sono, tutto quello che so, tutto quello che ho capito, tutta l’umanità che ho recuperato e quella in me che ho curato”

emy mignanelli, l’età dimenticata

Si è concluso da poco un altro anno scolastico. Arriva il tempo del silenzio, dopo il chiasso dei corridoi, delle aule, del refettorio, del giardino, della palestra per un insegnante è ora del silenzio. Non solo assenza di rumore ma anche di assenza di parole, risate, battute, condivisioni, riflessioni, tante riflessioni. E’ un tempo da tanti invidiato, per me un tempo fermo, dove rigenerare le forze, pensare e progettare. Un tempo necessario – per me anche troppo lungo – perché la stanchezza è il pericolo più subdolo quando si educa.

Faccio mia questa frase molto bella tratta da un libro di Emy Mignanelli, “L’età dimenticata”, lettura che consiglio nel periodo estivo. Ai bambini e alle bambine devo quello che sono, che so, che ho capito e l’umanità che ho vissuto sulla mia pelle è stata da stimolo e cura, lascia in me ancore a cui aggrapparmi nel navigare della vita. Una umanità delicata come petali. Perché in fondo i bambini non sono altro che petali di vivaci fiori.

L’orsetto della bambina

Mattina di primavera, ore 8.20. Frettolosamente mi avvio per non arrivare tardi a scuola, preso dai miei soliti pensieri, il cellulare impazzito di messaggi; non è la solita routine, stamattina sembra molto peggio.

Lungo il marciapiede incrocio una mamma ed una bambina che si recano alla scuola dell’infanzia. Potrebbe essere una scena come tante. Eppure, in questo frammento che i miei occhi decidono di catturare, c’è qualcosa di speciale.

Come faccio spesso mi incanto a guardare i bambini molto piccoli; la bimba di circa quattro anni che la mamma teneva per mano, procedeva lenta, lentissima. Ben pettinata e sistemata teneva tra le braccia un tenero orsetto, compagno di giochi e probabilmente rifugio consolatorio nel momento del distacco dalla mamma. Mentre io correvo affannato, la bimba si godeva il suo passo lento e la tenerezza di quell’abbraccio all’orsetto.

Mi sono rivisto bambino. Mi sono chiesto se anche io avessi un oggetto a cui tenermi stretto; la mia memoria non me ne ha presentato uno in particolare. Mi sono anche domandato cosa potrei portare oggi, a quasi cinquant’anni, come oggetto “consolatorio” davanti agli affanni della vita. Anche qui non saprei cosa scegliere, di solito gli oggetti non hanno valore se non legati al ricordo di una persona.

Credo che la ricchezza e la consolazione che portiamo dentro possiamo attingerla dagli incontri, dalle strade che percorriamo sempre con le stesse scarpe, da quella voglia di infinito che cerco in un tramonto, nella Luna e nelle stelle.

Alla domanda “quale cosa vi dà veramente gioia?” posta poco dopo ai miei alunni di quarta, mi ha colpito la risposta di Aurora: “poter parlare con qualcuno di cui mi fidi e dire ciò che penso”.

Eccolo, l’orsetto.

Due madri leonesse

Una strada sterrata. Due leonesse, simbolo di forza, dominio, potenza, formidabili cacciatrici. Poco distante alla loro sinistra un piccolo leoncino, probabilmente nato da poco viste le dimensioni. Il piccolo cammina con un passo apparentemente incerto, muove i primi passi nel mondo: quel territorio – scoprirà in seguito – dove la lotta per la sopravvivenza è all’ordine del giorno. Dovrà imparare a cacciare, a stare lontano dai pericoli, farsi forte e robusto.

In questa foto le due leonesse non proteggono il cucciolo, piuttosto mantengono una distanza; il messaggio è chiaro: noi ti proteggiamo ma inizia a fare da solo, segui il nostro andare.

Trovo queste due leonesse delle perfette educatrici. Stando al loro fianco il cucciolo crescerà con il loro esempio, imparerà ad imitarle fin dai primi passi. Le leonesse devono essere per lui un esempio di sicurezza, coerenza, forza e coraggio. Un po’ come fanno le anatre con gli anatroccoli sulle rive del fiume: prima si butta la madre e – in seguito – i piccoli.

Il mondo animale, con la sua spontaneità , è maestro.

Ci comportiamo diversamente noi umani; vediamo mamme e papà apprensivi, protettivi fino ad inibire totalmente le capacità di crescita di un figlio. Incontro bambini incapaci di assolvere alle più normali funzioni vitali: allacciarsi le scarpe, togliere un giacchetto, risolvere semplici problemi quotidiani perché abituati ad avere un adulto alle spalle che si sostituisce completamente a loro. E così invece di avere due leonesse che camminano al fianco di un cucciolo nella savana, vediamo tre bambini (mamma, papà e figlio) i cui ruoli non sono ben definiti e spesso si interscambiano.

In ogni camera dove dormono due genitori dovrebbe esserci una foto come questa che possa ricordare che la vita è camminare insieme, dare l’esempio e segnare il passo.

Quando il parroco parla male degli amici

Il miracolo del paralitico sanato (Mc 2,1-12) è uno dei passi evangelici che da sempre mi ha maggiormente entusiasmato. Non tanto per i gesti miracolosi di Gesù, non nuovo alle guarigioni. Ciò che più mi colpisce è la determinazione degli amici del malato che arrivano a calarlo dal tetto pur di offrirgli una speranza di salvezza; fin da bambino ho immaginato questi uomini forzuti, decisi, legati alla vita di quell’uomo malato che nella cultura del suo tempo era anche considerato un peccatore.

Nel commentare questa pagina, durante una lezione in una classe quarta, alcuni bambini hanno chiesto la parola con il volto spaesato e turbato. Uno di loro mi ha detto: “maestro, il nostro parroco in chiesa ha detto che degli amici non possiamo fidarci, perché prima o poi se ne andranno tutti“. Il loro turbamento è diventato il mio; ero deluso più che sorpreso dal momento che in più di un’occasione ho avuto modo di ascoltare le posizioni estreme di questo poco illuminato sacerdote.

I bambini credono nell’amicizia, la loro vita si basa sulla certezza di avere una famiglia e degli amici; non hanno altro per costruirsi un presente e un futuro. Ho detto loro che forse il parroco ha voluto – maldestramente – mettere in evidenza che Gesù è il vero amico… Ma anche qui mi sono chiesto: perché dobbiamo far passare ai bambini il concetto che Gesù è un amico, soprattutto dopo aver detto che gli amici se ne vanno? Sarebbe il caso di evitare queste visioni fiabesche: io con un amico ci parlo, vado allo stadio, ad un concerto, ci discuto, mi confronto, forse ci posso anche litigare, mentre un Dio non può essere un amico… è Dio, molto di più di qualsiasi altra cosa.

Il problema è che ai nostri bambini parlano alcuni sacerdoti che non conoscono il loro mondo, legati ad un’idea di infanzia totalmente lontana dal loro vissuto; ancor di più pretendono di intercettare i loro pensieri e i loro valori.

Trovo davvero avvilente che ad un bambino vengano messi in secondo piano valori importanti del loro vissuto, pur di far spazio ad un Dio che dovrebbe invadere ogni campo della vita. Il miracolo del paralitico insegna tutt’altro: dei buoni e veri amici possono portarti da Dio. E magari restano con te per festeggiare.

“Genitori rilassati cercasi” in tutte le librerie

E’ uscito oggi il mio nuovo libro, dedicato alle dinamiche della crescita in un tempo sempre più dominato dall’ansia e dallo stress, dove i genitori e gli educatori si trovano davanti a sfide importanti nella crescita di bambini, adolescenti, ragazzi. L’invasione della tecnologia, le dinamiche relazionali, le maggiori problematiche scolastiche, i gruppi whatsapp dei genitori, la solitudine dei nostri giovani, la disabilità: queste e tante altre le tematiche che ho voluto trattare in questo mio nuovo lavoro.

Un libro che affonda le radici nella mia famiglia anni ’80 in cui le dinamiche e i ruoli erano chiari; nel tempo odierno troviamo smarrimento da parte dei genitori e anche degli educatori. Per crescere figli sereni e positivi è necessario dedicare loro un tempo vero, fatto di ascolto, incoraggiamento, supporto, senza dimenticare il buon umore, elemento indispensabile in tutti i campi, soprattutto nell’educazione. Nel libro ho raccolto tante storie che ho ascoltato nei miei venticinque anni di scuola, cercando di offrire il mio punto di vista che nasce dall’esperienza scolastica.

E’ un libro a cui tengo particolarmente, scritto con passione e impegno. Ringrazio anticipatamente tutti i lettori che vorranno provare a diventare “Genitori rilassati”, perché in fondo è il desiderio di tutti. Provare per credere!

Cosa dovrei essere se non un bambino?

“Sono tornata a casa dopo i colloqui con i prof di mio figlio (prima media). Gli ho riferito che i suoi insegnanti lo vedono ancora bambino. E lui, candidamente ha commentato: e cos’altro dovrei essere?”.

Mi ha fatto sorridere questo racconto di una mamma di un mio ex alunno, Edoardo, che da settembre frequenta la prima media. Si stupiva della risposta innocente del figlio che a dieci anni si sente ancora bambino, non vuole essere “altro”, in controtendenza con i suoi pari. Semplicemente Edoardo si riconosce quello che è, umilmente e teneramente vuole godersi la sua identità.

Mi ha fatto riflettere questa risposta perché spesso cerchiamo noi stessi di essere “altro”: più giovani (o meno vecchi!), più alti, più magri, sempre in forma, nascondiamo gli acciacchi, la pancetta e magari ci illudiamo di avere meno anni di quelli che abbiamo. E invece il mio ex alunno – all’inizio della adolescenza – si gode il tempo che ha, non vuole apparire più grande ai suoi insegnanti, si riconosce ancora un bambino ed è felice di questo.

Un monito per noi insegnanti che vorremmo trasformarli, vorremmo vederli crescere in fretta, ci aspettiamo qualcosa che non possono dare. La risposta di Edoardo è significativa anche per i genitori che sperano di vedere cambiamenti tempestivi, crescite rapide e serene. Facciamo godere ai nostri ragazzi il tempo che hanno. Sarà un investimento sereno per loro e per noi.

Ironia e realtà

Ogni giorno ho la fortuna di incontrare un gruppo di piccoli, i migliori della piazza: i bambini. Durante le nostre lezioni avvengono scambi di idee, pensieri, valori: con la loro innocenza mi riportano sempre alla verità delle cose, a qualcosa che abbiamo dentro e che noi adulti abbiamo smarrito. E fanno domande, per fortuna ancora hanno la capacità di fare domande.

“Maestro, come fai a distinguere l’ironia dalla realtà?” è la domanda di Elisabetta, classe quinta. La sua domanda mi ha colpito e inizialmente disorientato; non ho saputo rispondere perché alle domande belle non sempre si trova una risposta immediata. Poi però, nelle ore successive, la domanda mi rode dentro, torna a bussare alla porta ed esige una risposta.

Ironia e realtà per alcuni possono sembrare parole inconciliabili, ma non lo sono. Sorrido sempre alla vita, o almeno ci provo. Quando incontro situazioni pesanti, persone negative (e la scuola ne è piena, ahimè), difficoltà di vario genere, butto sempre la mia ancora di salvataggio: ci rido su. La vita merita di essere raccontata ma anche di essere presa un po’ in giro. Nelle situazioni più estreme trovo sempre il lato divertente, è il mio modo di sdrammatizzare, di non soccombere agli umori pesanti. Insomma, non dobbiamo prenderci troppo sul serio.

Tornando alla domanda di Elisabetta, la realtà e l’ironia si incontrano nel mio mondo. In alcune circostanze addirittura si confondono. Non potrei e non saprei fare altrimenti. Sono il mio bacio e il mio pane quotidiano.

Giocare è una cosa seria

Questa frase tratta dall’ultimo libro di Erri de Luca, “le regole dello Shangai”, in cui il protagonista è un abile giocatore di Shangai ha stimolato una breve riflessione sul gioco.

Osservo spesso i bambini giocare. A scuola parte del tempo è dedicata al gioco, in giardino, in classe, durante la lezione come stimolo didattico. Ricorro al gioco qualche volta, un po’ per alleggerire le lezioni, un po’ per inquadrare altri aspetti di ogni singolo alunno. Per i bambini il gioco è importante; spesso si arrabbiano, arrivano anche a litigare per il gioco, per chi ha vinto, chi ha perso, chi ha barato… A volte noi adulti facciamo un errore di sottovalutazione, rispondiamo “eh dai, su… è un gioco”. Affatto. Giocare è una cosa seria, quando si gioca e c’è di mezzo una competizione si vuole vincere. A nessuno piace perdere.

Lasciamo che i bambini giochino e ogni tanto, anche noi “diversamente bambini” prendiamoci un po’ di tempo ludico. Ci farà bene.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén