Mattina di primavera, ore 8.20. Frettolosamente mi avvio per non arrivare tardi a scuola, preso dai miei soliti pensieri, il cellulare impazzito di messaggi; non è la solita routine, stamattina sembra molto peggio.
Lungo il marciapiede incrocio una mamma ed una bambina che si recano alla scuola dell’infanzia. Potrebbe essere una scena come tante. Eppure, in questo frammento che i miei occhi decidono di catturare, c’è qualcosa di speciale.
Come faccio spesso mi incanto a guardare i bambini molto piccoli; la bimba di circa quattro anni che la mamma teneva per mano, procedeva lenta, lentissima. Ben pettinata e sistemata teneva tra le braccia un tenero orsetto, compagno di giochi e probabilmente rifugio consolatorio nel momento del distacco dalla mamma. Mentre io correvo affannato, la bimba si godeva il suo passo lento e la tenerezza di quell’abbraccio all’orsetto.
Mi sono rivisto bambino. Mi sono chiesto se anche io avessi un oggetto a cui tenermi stretto; la mia memoria non me ne ha presentato uno in particolare. Mi sono anche domandato cosa potrei portare oggi, a quasi cinquant’anni, come oggetto “consolatorio” davanti agli affanni della vita. Anche qui non saprei cosa scegliere, di solito gli oggetti non hanno valore se non legati al ricordo di una persona.
Credo che la ricchezza e la consolazione che portiamo dentro possiamo attingerla dagli incontri, dalle strade che percorriamo sempre con le stesse scarpe, da quella voglia di infinito che cerco in un tramonto, nella Luna e nelle stelle.
Alla domanda “quale cosa vi dà veramente gioia?” posta poco dopo ai miei alunni di quarta, mi ha colpito la risposta di Aurora: “poter parlare con qualcuno di cui mi fidi e dire ciò che penso”.
Eccolo, l’orsetto.