Andrea Gironda

Perchè la vita merita di essere raccontata

Due madri leonesse

Una strada sterrata. Due leonesse, simbolo di forza, dominio, potenza, formidabili cacciatrici. Poco distante alla loro sinistra un piccolo leoncino, probabilmente nato da poco viste le dimensioni. Il piccolo cammina con un passo apparentemente incerto, muove i primi passi nel mondo: quel territorio – scoprirà in seguito – dove la lotta per la sopravvivenza è all’ordine del giorno. Dovrà imparare a cacciare, a stare lontano dai pericoli, farsi forte e robusto.

In questa foto le due leonesse non proteggono il cucciolo, piuttosto mantengono una distanza; il messaggio è chiaro: noi ti proteggiamo ma inizia a fare da solo, segui il nostro andare.

Trovo queste due leonesse delle perfette educatrici. Stando al loro fianco il cucciolo crescerà con il loro esempio, imparerà ad imitarle fin dai primi passi. Le leonesse devono essere per lui un esempio di sicurezza, coerenza, forza e coraggio. Un po’ come fanno le anatre con gli anatroccoli sulle rive del fiume: prima si butta la madre e – in seguito – i piccoli.

Il mondo animale, con la sua spontaneità , è maestro.

Ci comportiamo diversamente noi umani; vediamo mamme e papà apprensivi, protettivi fino ad inibire totalmente le capacità di crescita di un figlio. Incontro bambini incapaci di assolvere alle più normali funzioni vitali: allacciarsi le scarpe, togliere un giacchetto, risolvere semplici problemi quotidiani perché abituati ad avere un adulto alle spalle che si sostituisce completamente a loro. E così invece di avere due leonesse che camminano al fianco di un cucciolo nella savana, vediamo tre bambini (mamma, papà e figlio) i cui ruoli non sono ben definiti e spesso si interscambiano.

In ogni camera dove dormono due genitori dovrebbe esserci una foto come questa che possa ricordare che la vita è camminare insieme, dare l’esempio e segnare il passo.

La Pasqua dell’educatore – La domenica: largo alla gioia

Le campane hanno fatto sentire da poco i loro rintocchi con vigore, sono state slegate per poter tornare a suonare. Quel silenzio dei giorni scorsi viene finalmente infranto per lasciare spazio ad un suono festoso. Il canto esultante dell’Alleluja è risuonato poco fa nelle veglie pasquali; ci si scambiano gli auguri, se la Pasqua vuol dire “passaggio” auguriamoci un buon passaggio, ognuno sceglierà quale preferisce.

La gioia è un aspetto importante, maggiormente sotto il profilo educativo. Va cercata prima di tutto dentro di noi, approcciandoci alla vita con speranza: qui entrano in gioco l’educazione ricevuta, le esperienze vissute, quanto spazio abbiamo dato alla nostra crescita personale. Genitori ed educatori gioiosi riusciranno più facilmente a trasmettere allegria e leggerezza. Spesso fanno la differenza.

Questa risurrezione fa ben sperare: genitori, insegnanti, educatori devono sempre sperare, guardare alla luce, al cielo.

Buona Pasqua ai lettori di queste pagine, a tutti voi che generosamente avete la pazienza di leggere queste riflessioni.

La Pasqua dell’educatore – il sabato: il valore del silenzio

Giorno particolare quello del sabato santo. Nelle chiese non c’è alcuna celebrazione, tutto tace, è doveroso rispettare il silenzio. L’unico giorno aliturgico dell’anno. Niente messe, niente rosari, niente cori e soprattutto niente campane che hanno smesso di suonare dal giovedì santo. Tacciono le Sacre Scritture, per un giorno anche i personaggi biblici sono nell’oscurità.

Per i cristiani Gesù è nel sepolcro. Il giorno dopo il lutto è doveroso rispettare un silenzio spirituale.

Talvolta anche in campo educativo è necessario vivere un momento di silenzio. Provo a sperimentare un momento di silenzio quando vengo travolto da qualche problematica, lasciando spazio alla riflessione, dominando l’impulsività, sempre cattiva consigliera.

Con gli anni sto imparando che ogni tanto qualche problematica educativa è bene che riposi un attimo nel suo sepolcro, nell’attesa di vedere una nuova luce e una nuova gioia. Perché mai nulla è perduto; la vita vince sempre, come ci mostrano quelle piantine che crescono in mezzo alle rocce dove la vita ha poco spazio. Se ce la fanno loro, possiamo farcela tutti.

E’ vero che per educare sono necessarie le parole, talvolta però è doveroso restare in silenzio che diventa pregno di speranza e di attesa. Non di inutile dolore.

La Pasqua dell’educatore: il venerdì, accompagnare il dolore

E’ il giorno delle lacrime, della sofferenza, della morte, della croce, del silenzio. Soprattutto il giorno in cui una Madre è costretta ad assistere a ciò che di più ingiusto e innaturale possa sopportare: accompagnare un figlio verso la morte, sopportarne il dolore, annientando qualsiasi conforto.

Mi colpisce – da insegnante ed educatore – questo aspetto. Tante volte assistiamo alla distruzione – o ancor peggio, dell’autodistruzione – dei nostri ragazzi e ragazze. Li vediamo persi, annientati dalle poche speranze, lontani da sogni e ambizioni; ancora peggio quando a diventare padroni delle loro vite sono le droghe, l’alcool, le dipendenze.

Piangeva Maria sotto la croce, piangono tante mamme e tanti papà; quante volte mi è capitato di vedere le lacrime di una mamma, sono le più faticose, le più ricche d’amore.

Eppure, a volte, la fase del dolore e della disperazione dobbiamo abbracciarla. Lo ha fatto Maria, non è stata esclusa da questa emozione. Accompagniamo nei momenti più tristi i nostri giovani, non lasciamoli soli, appesi nelle loro croci.

La Pasqua dell’educatore – il giovedì: servizio e dono

Cerco nelle storie e nei libri che leggo l’aspetto educativo, un po’ per passione, un po’ per deformazione professionale. Non sono esenti da questo i testi evangelici, reputo Gesù un grande maestro al di là dell’aspetto divino che parla solo alle persone con fede.

I testi e i riti della Pasqua quest’anno mi suggeriscono più di uno stimolo. Il giovedì è il giorno della lavanda dei piedi e dell’istituzione dell’Eucaristia. Un maestro come Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli indica la direzione anche per insegnanti ed educatori: l’amore è servire. Colui che insegna, colui che è maestro/a deve abbassarsi verso i propri alunni, mettersi al servizio; scendere dal trono – l’autoritarismo genitoriale, la cattedra – per farsi umili. Noto, invece, quanti, tra genitori e docenti (soprattutto), amano essere serviti e talvolta anche riveriti. Il messaggio è chiaro, Gesù lascia sconcertati anche i suoi amici, qualcuno non riesce ad accettare questo gesto da servo. Per regnare è necessario servire, scendere dal proprio trono.

Poi c’è il dono dell’Eucaristia. E’ il dono totale di sé stessi, corpo e sangue. Un pane che resta, un vino che non perde il sapore. Anche qui il messaggio mi pare chiaro: donarsi, sempre. L’amore ha nella generosità la sua massima espressione. Un educatore deve donarsi, deve offrire se stesso sempre, ben oltre i limiti del suono della campanella.

In questo giovedì mi porto dietro due parole: servizio e dono. La vita di un educatore è soprattutto questo.

Un padre sognatore

C’era un uomo di nome Giuseppe. Il suo lavoro era il falegname. Da piccolo pensavo che mio padre, il cui nome era Giuseppe ed era un artigiano abile anche lui nel lavorare il legno, avesse qualche attinenza con San Giuseppe. Nella mia mente di bambino avevo costruito questo collegamento di fantasia.

È davvero piena di poesia e romanticismo la vicenda di San Giuseppe. Spesso l’arte ce l’ha mostrato nel modo peggiore: anziano, pensieroso, distaccato, a volte addirittura assente nei quadri della natività. Nelle nostre chiese troviamo tante luci e candele in onore di Maria, mentre San Giuseppe è posizionato in qualche angolo umido e poco illuminato, (sempre ammesso che ci sia una sua statua.) Potrebbe sembrare a tutti gli effetti una figura minore nella storia del cristianesimo.  

Di lui non si sa molto a parte che appartenesse alla stirpe di David, nato a Betlemme, falegname di mestiere e che la sua promessa sposa ad un certo punto gli comunica di aspettare un figlio dal Signore. Cosa farebbe un altro uomo? Si porrebbe certo molte domande, forse opterebbe per il ripudio. E invece lui no, Giuseppe crede nei sogni. Doveva essere un sognatore: viene tranquillizzato nel sogno e sempre da un sogno apprende che doveva mettere in salvo il Bambino Gesù dalla furia omicida di Erode. Ama la sua sposa Maria e poi parte per l’Egitto, perché chi crede nei sogni crede nell’amore e sa proteggere, affidandosi alla volontà di Dio.

Di Giuseppe poi non sappiamo più nulla. Nessuna parola nei vangeli, nessuna notizia neanche sulla sua morte; i cristiani lo invocano per una “buona morte” dal momento che si suppone si fosse spento vicino a Maria e Gesù.

San Giuseppe era quindi il padre ‘terreno’ di Gesù. Nel silenzio e nell’umiltà ha svolto il suo lavoro di padre; non doveva essere facile essere il papà di Gesù, nonostante tutto ha accettato questo ruolo facendosi piccolo davanti a Gesù. Addirittura, leggiamo nel Vangelo, quando gli abitanti della sua patria vedono arrivare Gesù si domandano “Non è questi il figlio del falegname?” (Mt 13,55), come se essere figli di un carpentiere volesse essere in una condizione disprezzabile.

La festa del papà cade nella memoria liturgica di San Giuseppe. Temo che quella poca considerazione di San Giuseppe di cui parlavo in apertura è la stessa che si proietta nei padri del nostro tempo; nella storia della pedagogia il padre è sempre stato il grande assente, impegnato nel portare a casa uno stipendio, estraneo all’educazione dei figli e alle vicende domestiche. Ho avuto questa triste sensazione quando ho dovuto cercare su internet delle poesie sul papà per questa giornata: ne esce un quadro desolante e deprimente.

Ho chiesto ai miei alunni di descrivermi in poche parole il loro papà. C’è un affetto sincero e malinconico nei confronti di molti papà, costretti a volte ad assentarsi per lavoro, altre volte presi e persi in mille cose. Mi piacerebbe vedere dei padri credere nei sogni, proprio come san Giuseppe, per amare e difendere, vivere e lottare, ridere e soffrire con i figli.

Le carezze della terra

La terra si sentì rispettata e sollecitata, e regalò nel tempo dovuto un bellissimo raccolto. Gnazio se lo aspettava, ma non per questo non ringraziò la terra e il vento, e restituì un sorriso e molte carezze a quell’oro che copriva il verde e si muoveva silenzioso nella brezza che veniva dal mare. (Andrea Camilleri, Maurizio de Giovanni, Il canto del mare)

andrea camilleri, maurizio de giovanni, il canto del mare

“Il canto del mare” è un libricino molto bello, l’ho letto con interesse. E’ una favola per adulti, con tutto l’incanto di un romanzo poetico di Camilleri, reinterpretato da Maurizio De Giovanni, arricchite dai disegni Mariolina Camilleri, ultimogenita del grande scrittore siciliano.

Il lettore si perde in questa favola dove c’è tutto quanto possa emozionare: l’amore, l’arte della narrazione, la natura, l’avventura, una sirena, gli alberi e ovviamente il mare. Il protagonista, Gnazio, il mare non lo può neanche vedere, ricordo di un viaggio da emigrante nella lontana America. Eppure impara a conviverci, mettendo con esso una rispettosa distanza di sicurezza. Gnazio ama la terra, la rispetta, la valorizza, la tratta con il rispetto dovuto ed essa – riconoscente – lo ricompensa sempre. Fedele al suo amore e al rispetto per la terra non scenderà a compromessi, diventerà la sua ragione di vita.

In questo tempo dove l’uomo sembra aver dichiarato guerra al bene comune del creato, c’è da imparare che la terra ci nutre, è “madre” come la chiamava San Francesco. E come Gnazio non dovremmo smettere di ringraziarla. Il suo sorriso non mancherà.

Il padre che perdona

“Il padre che perdona entra in dialogo con le colpe dei figli: le riconosce, le interroga, ci riflette, si domanda come può offrire un aiuto per superarle, ma sa anche aspettare, sa confidare nella capacità di crescere e sa accettare di non poter risolvere magicamente le difficoltà più grandi”.

Antonio Mazzi, Nel nome del padre

Sentiamo spesso parlare di perdono. A volte sembra essere diventato un prodotto commerciale nei fatti di cronaca nera: viene ammazzato qualcuno/a, si chiede al parente più prossimo della vittima se è disposto a perdonare. Troppo facile.

Nel libro di don Mazzi, “Nel nome del padre”, il buon prete ultranovantenne solo per l’anagrafe, ci propone una lunga riflessione sulla paternità. Tra i tanti aspetti analizzati mi è piaciuto il padre che perdona, capace di entrare in dialogo con i figli, analizzando, riconoscendo, riflettendo sulle colpe. La sua capacità di attesa, di confidare nella crescita farà di lui un padre diverso dagli altri. Ho sempre cercato di trasmettere ai miei figli che dietro ogni loro marachella l’ultima parola era sempre il perdono.

Deve essere così, un padre misericordioso (letteralmente “che ha pietà con il cuore”) è colui che accetta le debolezze dei figli che poi sono anche le sue. Per le mamme è diverso, il loro rapporto viscerale cambia naturalmente l’approccio educativo.

Il perdono ha in sè la parola dono. Può fare la differenza nei rapporti quotidiani genitori-figli. Il perdono forgia l’anima e la rafforza, nel riconoscere il proprio errore un bambino/ragazzo sperimenterà anche la consolazione. E’ ciò che abbiamo sempre cercato e che continueremo ad attendere.

Le cose piccole

“Con Gesù possiamo sognare un’umanità nuova e impegnarci per una società più fraterna e attenta alla nostra casa comune, cominciando dalle cose semplici, come salutare gli altri, chiedere permesso, chiedere scusa, dire grazie. Il mondo si trasforma prima di tutto attraverso le cose piccole, senza vergognarsi di fare solo piccoli passi” (Papa Francesco, messaggio per la giornata mondiale dei bambini).

Le cose piccole. Sono queste le parole che Papa Francesco vuole mettere in risalto nel messaggio dedicato alla Giornata mondiale dei bambini in programma il prossimo 26-26 maggio. Davvero una lodevole iniziativa di cui si sentiva il bisogno, spostare i riflettori sui bambini che non sono banalmente “i grandi di domani” ma che dovrebbero essere “i piccoli di oggi” con maggiore voce e attenzione sociale, politica ed economica.

Vivo con i bambini, mi nutro delle loro parole, del loro chiasso, della loro allegra confusione e saggezza. Papa Francesco torna su gesti semplici: salutare, chiedere permesso, scusa, ringraziare. Per fare in modo che “le cose piccole” possano permeare nel vissuto dei bambini dobbiamo essere noi adulti a dare l’esempio.

Le cose piccole possono diventare cose grandi. Sta a noi iniziare.

Un giorno in più

Tutti conserviamo il tempo. Conserviamo l’antico significato di ogni persona che ci ha lasciato. E anche noi siamo ancora questi antichi significati, sottopelle, sotto lo strato di rughe, esperienza e risate. Proprio là sotto siamo ancora quelli di una volta. I bambini di una volta, gli amanti di una volta, i figli di una volta” Nina George – Una piccola libreria a Parigi.

Oggi è 29 febbraio, scrivere una breve riflessione in una data simile accade una volta ogni quattro anni. Mi sono detto che era meglio approfittare di questa occasione.

Guardo il calendario e vedo questo giorno in più, il 29, numero insolito per febbraio, ordinario per tutti gli altri. Sembra che il tempo voglia regalarci un giorno in più, tempo di cui non siamo padroni ma ignari beneficiari. Cosa fare in questo giorno? Come trascorrerlo? Saremo capaci di goderci un “giorno bonus” inserito nel nostro calendario come compensazione astrale nella rotazione terrestre?

Ripenso alla frase proposta da Nina George, nel suo bel libro “Una piccola libreria a Parigi”. Mi piacerebbe trascorrerlo ricordando pezzi di me, stralci di vita; di quali esperienze siamo fatti, quali amori, amicizie, successi e cadute ci hanno permesso di guardare il cielo in questo giorno bisestile. Perché in fondo non siamo altro che il risultato di storie e incontri.

Quando il parroco parla male degli amici

Il miracolo del paralitico sanato (Mc 2,1-12) è uno dei passi evangelici che da sempre mi ha maggiormente entusiasmato. Non tanto per i gesti miracolosi di Gesù, non nuovo alle guarigioni. Ciò che più mi colpisce è la determinazione degli amici del malato che arrivano a calarlo dal tetto pur di offrirgli una speranza di salvezza; fin da bambino ho immaginato questi uomini forzuti, decisi, legati alla vita di quell’uomo malato che nella cultura del suo tempo era anche considerato un peccatore.

Nel commentare questa pagina, durante una lezione in una classe quarta, alcuni bambini hanno chiesto la parola con il volto spaesato e turbato. Uno di loro mi ha detto: “maestro, il nostro parroco in chiesa ha detto che degli amici non possiamo fidarci, perché prima o poi se ne andranno tutti“. Il loro turbamento è diventato il mio; ero deluso più che sorpreso dal momento che in più di un’occasione ho avuto modo di ascoltare le posizioni estreme di questo poco illuminato sacerdote.

I bambini credono nell’amicizia, la loro vita si basa sulla certezza di avere una famiglia e degli amici; non hanno altro per costruirsi un presente e un futuro. Ho detto loro che forse il parroco ha voluto – maldestramente – mettere in evidenza che Gesù è il vero amico… Ma anche qui mi sono chiesto: perché dobbiamo far passare ai bambini il concetto che Gesù è un amico, soprattutto dopo aver detto che gli amici se ne vanno? Sarebbe il caso di evitare queste visioni fiabesche: io con un amico ci parlo, vado allo stadio, ad un concerto, ci discuto, mi confronto, forse ci posso anche litigare, mentre un Dio non può essere un amico… è Dio, molto di più di qualsiasi altra cosa.

Il problema è che ai nostri bambini parlano alcuni sacerdoti che non conoscono il loro mondo, legati ad un’idea di infanzia totalmente lontana dal loro vissuto; ancor di più pretendono di intercettare i loro pensieri e i loro valori.

Trovo davvero avvilente che ad un bambino vengano messi in secondo piano valori importanti del loro vissuto, pur di far spazio ad un Dio che dovrebbe invadere ogni campo della vita. Il miracolo del paralitico insegna tutt’altro: dei buoni e veri amici possono portarti da Dio. E magari restano con te per festeggiare.

L’arte con i guanti bianchi

L’arte va trattata con cura, merita il contesto idoneo per essere apprezzata in pienezza. L’abbiamo strapazzata a tal punto da trasformarla in un genere di facile consumo.

Con un cellulare possiamo ascoltare musica mentre siamo in treno, in aereo o in mezzo ad una piazza; con lo stesso mezzo possiamo anche vedere un film sdraiati sul letto. Un quadro o un affresco possiamo osservarli dal computer o dal tablet, per non parlare di un film, visibile da uno schermo da sei pollici fino alle moderne tv domestiche.

C’è un ambiente per ogni cosa. Sarò della vecchia scuola che la musica si ascolta con un impianto hi-fi, che la bravura di un attore va apprezzata in un teatro; il cinema è la dimensione ideale per godere di un film, fatto di immagini, musiche, luci, colori, così come una mostra ben curata è il modo migliore per godere della pittura di un quadro.

Un artista cerca con cura ciò che darà forma alla sua opera: il regista la giusta sceneggiatura; il compositore il timbro giusto di un violino; uno scrittore la parola che dà forma al suo libro; lo scultore il giusto colpo da assestare per dare vita alla sua opera.

Inutile illuderci che tutto possa adattarsi al mezzo che abbiamo a disposizione: mortifica l’artista, offenderebbe l’opera. Prendiamoci il tempo e l’attenzione per godere del bello nella sua piena espressione, non potrà far altro che arricchire l’anima.

Prendiamoci cura delle parole

“Poi c’è il linguaggio: non è forse metro di accudimento? Immagina una terra che rimane muta, prova a pensare a giorni simmetrici senza vocabolario, le parole non nate o non accolte sarebbero aborti di piccole memorie e piccole storie. Le storie sono terra fertile e, come diceva tuo nonno, piene di contraddizioni per tenerci in equilibrio”. (Valeria Tron, L’equilibrio delle lucciole)

Ci sono giorni in cui le parole esagerano. Mi invadono, mi cercano, altre volte addirittura mi perseguitano: queste ultime sono quelle più inutili, sprecate, pezzi di frasi malsane che nascono da bocche aride. In momenti come questi, mentre scrivo, lascio spazio al silenzio per riappropriarmi delle parole che scorrono sulla tastiera. Le cerco nella mia memoria, le ritrovo, le riabbraccio. E’ in momenti come questi che sento l’accudimento, dove le parole scritte nel vocabolario diventano memoria, racconti, ricordi, speranze.

Siamo esseri dotati di linguaggio verbale, gli unici. A volte bastano poche parole per inventare storie, altre volte ne servono di più per rivivere il passato, altre volte le parole diventano note tra lunghi silenzi, sono centellinate, cercate e curate.

Prendiamoci cura delle parole.

Quei giovani di talento

Sinner e Angelina Mango. Sono i volti nuovi di questa Italia 2024, volti freschi e giovani. Nel campo sportivo e musicale hanno portato una ventata di speranza.

Di entrambi ho apprezzato il valore e il legame con la famiglia. Non sono sfuggiti all’occhio dell’educatore alcuni dettagli importanti. Sinner è un ragazzo che per arrivare a vincere si allena tanto, versando sudore, tanto da rifiutare anche eventi mondani come il Festival “per allenarsi”, ha detto. Ringrazia ciò che natura gli ha dato, il talento, ma anche la famiglia che lo ha aiutato a coltivare i propri sogni. Ma un vero campione non è mai pago del successo, vuole continuare a migliorarsi, studiando e impegnandosi.

Così fanno anche i musicisti. La vetta delle classifiche e il trionfo si sono rivelati spesso malvagi profeti: qualcuno tocca il cielo con un dito e poi torna nel dimenticatoio, semplicemente perché privi di talento. Una famosa parabola ci dice che quel talento va fatto fruttare, altrimenti muore sotto terra.

Penso ad Angelina Mango, figlia di un cantautore amato ma forse non del tutto apprezzato pienamente dal grande pubblico. La ragazza non è la solita “figlia di” arrivata lì per il cognome; in questo caso la famiglia ha avuto un ruolo importante perché Angelina è cresciuta nella musica, è la figlia di Pino perché da lui ha ereditato il talento, sa tenere il palco, trasmette emozione, musicalmente perfetta. Se studierà ancora quel talento che ha nel sangue la porterà lontano; ne sono certo e glielo auguro di cuore.

Sinner e Angelina sono i giovani di talento che ci fanno ben sperare, quelli che sanno fare perché talentuosi. Abbiamo bisogno di giovani capaci, non quelli da sei meno. Solo così avremo persone felici di aver messo a frutto ciò che la natura gli ha donato.

… e fatti una risata!

Senza ironia e, soprattutto, senza autoironia qualsiasi difficoltà diventa un peso enorme da sopportare. A riderci su, invece, si alleggerisce anche il momento più difficile. Se non ci credete, il consiglio che vi do è di provarci: nel momento più critico di tutti, buttatela sull’ironia. Prendete in giro voi stessi, prendete in giro gli altri, sdrammatizzate” (Bebe Vio, Se sembra impossibile allora si può fare).

In questi giorni si sono sollevate molte perplessità in merito al “Ballo del qua qua” in cui si è esibito un imbarazzato John Travolta. Senza entrare nel merito dell’opportunità artistica, ammetto di avere avuto qualche perplessità sull’improvvisazione di tale esibizione (dubito che un nome di quel tipo possa essere oggetto di qualsiasi iniziativa a sua insaputa). Vista in diretta mi sembrava un’esibizione piuttosto divertente, quasi autoironica.

Eppure pare che nessuno lo abbia capito, Travolta per primo, canzonato (è il caso di dirlo!) dai suoi stessi colleghi, silurato dalla critica. Peccato, sarà che viviamo in un tempo dove pochi capiscono l’autoironia.

Le parole di Bebe Vio, campionessa di sport di umanità, sono un tesoro prezioso per tutti, non solo per John Travolta che avrebbe potuto farci una risata liberatoria, in cui anche l’evidente difficoltà poteva essere superata con classe, ironia e autoironia.

Sdrammatizzare così può diventare un grande gesto da Oscar.

Lo scrutinio migliore

Non c’è nulla di più stagno del magone per fare barriera al sapere. La risata la puoi spegnere con uno sguardo, ma le lacrime…” (Daniel Pennac, Diario di scuola)

In questi giorni i docenti sono impegnati nel difficile compito di valutare i propri studenti, con voti e giudizi. Difficile, discutibile, umiliante: mi limito a questi tre aggettivi.

Discutibile perché la valutazione del sapere è qualcosa di improponibile soprattutto a livello globale: per un insegnante di italiano un ragazzo ha tutti 4, per quello di matematica tutti 7. Come si fa? Quali sono le giuste misure per quantificare un sapere? Andrebbero analizzati tanti e troppi fattori per capirci qualcosa e forse neanche basterebbero per farci un’idea vicina alla realtà. E qui subentra la discutibilità di quanto tutti gli insegnanti sostengono, perché ogni valutazione deve essere sempre la somma di tante visioni. In tutto questo si prova una certa umiliazione mista a superbia perché tentiamo di riassumere con numeri o voti il sapere di un allievo.

Il magone di non sapere e le lacrime che ne derivano le ho provate anche io quando mi trovavo davanti ai numeri da ragioniere, alle tecniche di un presunto bancario o addirittura a cimentarmi in una incomprensibile lingua fatta di segni come la stenografia. Quanto tempo ho perso, quante lacrime di rassegnazione: nessuna comprensione, nessuno che mi abbia mai chiesto “quali sono i tuoi talenti?”.

I nostri studenti hanno valori nascosti. Tempo fa una maestra disse ad un bambino: secondo me dovresti studiare recitazione. Ora, a 16 anni, recita in piccoli e grandi teatri, impara, si fa le ossa, crede nei suoi sogni e in ciò che la sua maestra intravide in tenera età. E’ stato lo scrutinio migliore, non c’è valutazione che tenga.

E la maestra è tornata ad applaudirlo, perché questo è educare.

Il deserto di “Fratellino”

«Voi qui avete il mare ma noi là abbiamo il . Se i tuoi occhi non hanno mai visto il deserto, non puoi capire bene che cos’è. Il deserto è un altro mondo, ci entri e pensi: “Non uscirò mai da qui”».

Sotto suggerimento di Papa Francesco, ho letto il libro “Fratellino”. Mi aspettavo un libro duro, capace di far sussultare le coscienze. Le aspettative non sono state deluse, anche se ero “preparato” dal momento che un libro simile, di straordinaria intensità narrativa (Giuseppe Catozzella, Non dirmi che hai paura) aveva già toccato il tema del dietro le quinte del fenomeno migratorio.

Quando vediamo i barconi arrivare a Lampedusa, stipati di uomini, donne e bambini, stiamo vedendo l’ultimo secondo di un film lunghissimo; il finale spesso tragico dell’arrivo dei migranti è narrata in questo libro “Fratellino”, che pone l’attenzione sui momenti drammatici che vivono i migranti molto tempo prima di salire su un barcone. Un tragico “dietro le quinte” spesso ignorato.

Quando sentiamo parlare di “tratta di esseri umani”, “sfruttamento”, “schiavitù”, sembrano parole distanti da noi, come il deserto che Ibrahim si è trovato ad attraversare. Il protagonista narra, non scrive, la sua storia con tutto il realismo del caso, senza fare sconti. Il lettore non può che rimanere attonito davanti a tanto orrore; in Africa ci sono armi ovunque, una violenza senza pietà che si riversa nei confronti di chi prova a darsi un’altra possibilità fuggendo dalla fame e dalle guerre, ritrovandosi invece in una morsa di violenza e sfruttamento che meritano l’attenzione dell’intera popolazione mondiale.

Quando vediamo queste persone arrivare dal mare dovremmo conoscere le loro storie, da cosa realmente scappano e quanto è costato il loro viaggio fin qui. “Fratellino” è una storia triste quanto drammaticamente attuale; accogliere i migranti è un normale gesto di umanità, che sembra tanto difficile comprendere. La legge del mare e la legge dell’uomo non può abbandonare nessuno, soprattutto chi fugge.

Mi sono trovato anche io nel deserto con Ibrahim, partito alla ricerca di un fratellino di cui non aveva più notizie; mi sono perso nel deserto di questa umanità in cui tanto credo, incapace però di riconoscere e ritrovare i nostri fratellini.

Sinner e l’importanza di avere “certi genitori”

«Ho fatto tanti sacrifici ma ne hanno fatti anche loro [i genitori], lasciare il proprio figlio a 13 anni non è semplicissimo. A Vienna abbiamo fatto colazione insieme per tutta la settimana ed è stato strano perché non succedeva da anni, quando torno a casa, in montagna, non sto mai più di un paio di giorni quindi un’intera settimana di colazioni con i miei è stato diverso, buffo, ma anche bello e speciale. Averli vicini significa tanto per me, però per come conosco i miei genitori per loro è più importante vedermi felice che alzare una coppa. Se mi vedono felice, ecco, abbiamo già vinto».

Sinner è il vincitore dell’Australia Open. Ragazzo serio, pacato, sorridente. Non manca un pensiero per i propri genitori; è bello che un atleta sugli scudi abbia avuto la sensibilità di ricordare i sacrifici dei genitori che gli hanno permesso di arrivare al traguardo che ha sempre sognato.

Ha ricordato, dopo il successo di Vienna che il “segreto” per ritrovare la serenità e lo spirito giusto è stato avere la possibilità di fare colazione con i propri genitori, capaci di intuire il talento del proprio ragazzo e a soli 13 anni permettendogli così di volare. Oggi molti tredicenni non sanno neanche farsi il letto, ma non è colpa loro, piuttosto di quei genitori che si rifiutano di farli crescere.

Quante volte abbiamo sentito padri e madri rammaricati perché non vedono la disponibilità da parte dei propri figli a portare avanti “l’azienda di famiglia”; non necessariamente bisogna riversare i propri desideri per il futuro alle nuove generazioni. Piuttosto è importante che la famiglia, ma gli educatori tutti (scuola compresa) possano aiutare i giovani a scoprire la propria vocazione, sostenerli affinché possano realizzare i propri sogni. Sempre che ne abbiano uno.

Gigi Riva, la bandiera, l’uomo, l’umiltà

Non posso raccontarvi di Gigi Riva perché non l’ho vissuto. Così come non posso parlarvi di Long John, Giorgio Chinaglia, “Giorgione” per noi tifosi laziali. Non posso neanche raccontarvi di Pelè. Tutti calciatori che hanno terminato la loro carriera a ridosso della mia nascita, talenti di cui ho sentito raccontare le gesta dalla tv o da mio padre come nel caso di Chinaglia, mito che ancora vive nei cuori di molti di noi.

Eppure la scomparsa di questi grandi talenti sembrano battere il tempo; del resto i miti fanno questo, la loro popolarità non viene scalfita negli anni, addirittura in certi casi aumenta.

La morte di Gigi Riva ha avuto, come giusto, molto risalto; ricordo di aver visto tempo fa un bellissimo documentario che raccontava la storia di questo campione impermeabile ai richiami della fama e del denaro. Lo testimonia la foto che accompagna questo articolo: “Riva e Chinaglia reti a mitraglia”. Due campioni accomunati da una carriera non in squadre di alto rango per l’epoca, ma che hanno legato la loro storia alla comunità sportiva che li ha accolti. Esempi di umanità e non di gloria esibita.

Una “bandiera” come si dice nel gergo calcistico; Gigi Riva che non era nato a Cagliari ha fatto della città sarda la sua casa, legando per sempre il suo nome ai colori rossoblù. Per gli innamorati di calcio le bandiere sono ormai rarità. Riva no; esplosivo, immarcabile, vincente, determinante, con i suoi gol ha regalato gioie e soprattutto un esempio di coerenza e umiltà.

Quando muoiono certe leggende è bene alzarsi. Non solo al campione, all’uomo, alla bandiera, al simbolo.

La perfetta (e perduta) letizia

“Vi è perfetta letizia quando riusciamo a vincere noi stessi, il nostro desiderio di possedere doni che non ci appartengono perché appartengono a Dio, quando abbandoneremo le nostre insicurezze, le nostre vanità, la nostra presunzione.

È perfetta letizia sapersi amati comunque e per questo più forti di ogni difficoltà.

È perfetta letizia saper vedere la luce anche nel buio più grande. È un grande insegnamento mistico e spirituale. Insomma, viviamo la più grande tristezza quando abbiamo paura di cambiare perché abbiamo paura di perdere ciò che pensiamo sia, illudendoci, la felicità” (card. Zuppi – Walter Veltroni, Matteo Zuppi – Non arrendiamoci)

Paura di cambiare, è il rischio di colui che cerca la felicità ancorandosi alle sue certezze. La perfetta letizia la immaginiamo in una Spa, in un’isola tropicale o magari davanti ad un conto in banca con tanti zeri. Non voglio fare il mistico, i beni terreni fanno piacere, non mi credereste se anche io non avessi un desiderio materiale nel cuore. Non è questa però la perfetta letizia, di sapore francescano ma in questo caso evocata dal car. Matteo Zuppi.

Aneliamo a desideri che non ci appartengono, appartengono a Dio come l’amore che riceviamo dalle persone che ci circondano. In fondo per arrivare alla perfetta letizia la strada non sembra così impervia.

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