Perchè la vita merita di essere raccontata

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La Pasqua dell’educatore – il giovedì: servizio e dono

Cerco nelle storie e nei libri che leggo l’aspetto educativo, un po’ per passione, un po’ per deformazione professionale. Non sono esenti da questo i testi evangelici, reputo Gesù un grande maestro al di là dell’aspetto divino che parla solo alle persone con fede.

I testi e i riti della Pasqua quest’anno mi suggeriscono più di uno stimolo. Il giovedì è il giorno della lavanda dei piedi e dell’istituzione dell’Eucaristia. Un maestro come Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli indica la direzione anche per insegnanti ed educatori: l’amore è servire. Colui che insegna, colui che è maestro/a deve abbassarsi verso i propri alunni, mettersi al servizio; scendere dal trono – l’autoritarismo genitoriale, la cattedra – per farsi umili. Noto, invece, quanti, tra genitori e docenti (soprattutto), amano essere serviti e talvolta anche riveriti. Il messaggio è chiaro, Gesù lascia sconcertati anche i suoi amici, qualcuno non riesce ad accettare questo gesto da servo. Per regnare è necessario servire, scendere dal proprio trono.

Poi c’è il dono dell’Eucaristia. E’ il dono totale di sé stessi, corpo e sangue. Un pane che resta, un vino che non perde il sapore. Anche qui il messaggio mi pare chiaro: donarsi, sempre. L’amore ha nella generosità la sua massima espressione. Un educatore deve donarsi, deve offrire se stesso sempre, ben oltre i limiti del suono della campanella.

In questo giovedì mi porto dietro due parole: servizio e dono. La vita di un educatore è soprattutto questo.

Un padre sognatore

C’era un uomo di nome Giuseppe. Il suo lavoro era il falegname. Da piccolo pensavo che mio padre, il cui nome era Giuseppe ed era un artigiano abile anche lui nel lavorare il legno, avesse qualche attinenza con San Giuseppe. Nella mia mente di bambino avevo costruito questo collegamento di fantasia.

È davvero piena di poesia e romanticismo la vicenda di San Giuseppe. Spesso l’arte ce l’ha mostrato nel modo peggiore: anziano, pensieroso, distaccato, a volte addirittura assente nei quadri della natività. Nelle nostre chiese troviamo tante luci e candele in onore di Maria, mentre San Giuseppe è posizionato in qualche angolo umido e poco illuminato, (sempre ammesso che ci sia una sua statua.) Potrebbe sembrare a tutti gli effetti una figura minore nella storia del cristianesimo.  

Di lui non si sa molto a parte che appartenesse alla stirpe di David, nato a Betlemme, falegname di mestiere e che la sua promessa sposa ad un certo punto gli comunica di aspettare un figlio dal Signore. Cosa farebbe un altro uomo? Si porrebbe certo molte domande, forse opterebbe per il ripudio. E invece lui no, Giuseppe crede nei sogni. Doveva essere un sognatore: viene tranquillizzato nel sogno e sempre da un sogno apprende che doveva mettere in salvo il Bambino Gesù dalla furia omicida di Erode. Ama la sua sposa Maria e poi parte per l’Egitto, perché chi crede nei sogni crede nell’amore e sa proteggere, affidandosi alla volontà di Dio.

Di Giuseppe poi non sappiamo più nulla. Nessuna parola nei vangeli, nessuna notizia neanche sulla sua morte; i cristiani lo invocano per una “buona morte” dal momento che si suppone si fosse spento vicino a Maria e Gesù.

San Giuseppe era quindi il padre ‘terreno’ di Gesù. Nel silenzio e nell’umiltà ha svolto il suo lavoro di padre; non doveva essere facile essere il papà di Gesù, nonostante tutto ha accettato questo ruolo facendosi piccolo davanti a Gesù. Addirittura, leggiamo nel Vangelo, quando gli abitanti della sua patria vedono arrivare Gesù si domandano “Non è questi il figlio del falegname?” (Mt 13,55), come se essere figli di un carpentiere volesse essere in una condizione disprezzabile.

La festa del papà cade nella memoria liturgica di San Giuseppe. Temo che quella poca considerazione di San Giuseppe di cui parlavo in apertura è la stessa che si proietta nei padri del nostro tempo; nella storia della pedagogia il padre è sempre stato il grande assente, impegnato nel portare a casa uno stipendio, estraneo all’educazione dei figli e alle vicende domestiche. Ho avuto questa triste sensazione quando ho dovuto cercare su internet delle poesie sul papà per questa giornata: ne esce un quadro desolante e deprimente.

Ho chiesto ai miei alunni di descrivermi in poche parole il loro papà. C’è un affetto sincero e malinconico nei confronti di molti papà, costretti a volte ad assentarsi per lavoro, altre volte presi e persi in mille cose. Mi piacerebbe vedere dei padri credere nei sogni, proprio come san Giuseppe, per amare e difendere, vivere e lottare, ridere e soffrire con i figli.

Quando il parroco parla male degli amici

Il miracolo del paralitico sanato (Mc 2,1-12) è uno dei passi evangelici che da sempre mi ha maggiormente entusiasmato. Non tanto per i gesti miracolosi di Gesù, non nuovo alle guarigioni. Ciò che più mi colpisce è la determinazione degli amici del malato che arrivano a calarlo dal tetto pur di offrirgli una speranza di salvezza; fin da bambino ho immaginato questi uomini forzuti, decisi, legati alla vita di quell’uomo malato che nella cultura del suo tempo era anche considerato un peccatore.

Nel commentare questa pagina, durante una lezione in una classe quarta, alcuni bambini hanno chiesto la parola con il volto spaesato e turbato. Uno di loro mi ha detto: “maestro, il nostro parroco in chiesa ha detto che degli amici non possiamo fidarci, perché prima o poi se ne andranno tutti“. Il loro turbamento è diventato il mio; ero deluso più che sorpreso dal momento che in più di un’occasione ho avuto modo di ascoltare le posizioni estreme di questo poco illuminato sacerdote.

I bambini credono nell’amicizia, la loro vita si basa sulla certezza di avere una famiglia e degli amici; non hanno altro per costruirsi un presente e un futuro. Ho detto loro che forse il parroco ha voluto – maldestramente – mettere in evidenza che Gesù è il vero amico… Ma anche qui mi sono chiesto: perché dobbiamo far passare ai bambini il concetto che Gesù è un amico, soprattutto dopo aver detto che gli amici se ne vanno? Sarebbe il caso di evitare queste visioni fiabesche: io con un amico ci parlo, vado allo stadio, ad un concerto, ci discuto, mi confronto, forse ci posso anche litigare, mentre un Dio non può essere un amico… è Dio, molto di più di qualsiasi altra cosa.

Il problema è che ai nostri bambini parlano alcuni sacerdoti che non conoscono il loro mondo, legati ad un’idea di infanzia totalmente lontana dal loro vissuto; ancor di più pretendono di intercettare i loro pensieri e i loro valori.

Trovo davvero avvilente che ad un bambino vengano messi in secondo piano valori importanti del loro vissuto, pur di far spazio ad un Dio che dovrebbe invadere ogni campo della vita. Il miracolo del paralitico insegna tutt’altro: dei buoni e veri amici possono portarti da Dio. E magari restano con te per festeggiare.

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