Perchè la vita merita di essere raccontata

Categoria: chiesa

La Pasqua dell’educatore – La domenica: largo alla gioia

Le campane hanno fatto sentire da poco i loro rintocchi con vigore, sono state slegate per poter tornare a suonare. Quel silenzio dei giorni scorsi viene finalmente infranto per lasciare spazio ad un suono festoso. Il canto esultante dell’Alleluja è risuonato poco fa nelle veglie pasquali; ci si scambiano gli auguri, se la Pasqua vuol dire “passaggio” auguriamoci un buon passaggio, ognuno sceglierà quale preferisce.

La gioia è un aspetto importante, maggiormente sotto il profilo educativo. Va cercata prima di tutto dentro di noi, approcciandoci alla vita con speranza: qui entrano in gioco l’educazione ricevuta, le esperienze vissute, quanto spazio abbiamo dato alla nostra crescita personale. Genitori ed educatori gioiosi riusciranno più facilmente a trasmettere allegria e leggerezza. Spesso fanno la differenza.

Questa risurrezione fa ben sperare: genitori, insegnanti, educatori devono sempre sperare, guardare alla luce, al cielo.

Buona Pasqua ai lettori di queste pagine, a tutti voi che generosamente avete la pazienza di leggere queste riflessioni.

La Pasqua dell’educatore – il sabato: il valore del silenzio

Giorno particolare quello del sabato santo. Nelle chiese non c’è alcuna celebrazione, tutto tace, è doveroso rispettare il silenzio. L’unico giorno aliturgico dell’anno. Niente messe, niente rosari, niente cori e soprattutto niente campane che hanno smesso di suonare dal giovedì santo. Tacciono le Sacre Scritture, per un giorno anche i personaggi biblici sono nell’oscurità.

Per i cristiani Gesù è nel sepolcro. Il giorno dopo il lutto è doveroso rispettare un silenzio spirituale.

Talvolta anche in campo educativo è necessario vivere un momento di silenzio. Provo a sperimentare un momento di silenzio quando vengo travolto da qualche problematica, lasciando spazio alla riflessione, dominando l’impulsività, sempre cattiva consigliera.

Con gli anni sto imparando che ogni tanto qualche problematica educativa è bene che riposi un attimo nel suo sepolcro, nell’attesa di vedere una nuova luce e una nuova gioia. Perché mai nulla è perduto; la vita vince sempre, come ci mostrano quelle piantine che crescono in mezzo alle rocce dove la vita ha poco spazio. Se ce la fanno loro, possiamo farcela tutti.

E’ vero che per educare sono necessarie le parole, talvolta però è doveroso restare in silenzio che diventa pregno di speranza e di attesa. Non di inutile dolore.

La Pasqua dell’educatore: il venerdì, accompagnare il dolore

E’ il giorno delle lacrime, della sofferenza, della morte, della croce, del silenzio. Soprattutto il giorno in cui una Madre è costretta ad assistere a ciò che di più ingiusto e innaturale possa sopportare: accompagnare un figlio verso la morte, sopportarne il dolore, annientando qualsiasi conforto.

Mi colpisce – da insegnante ed educatore – questo aspetto. Tante volte assistiamo alla distruzione – o ancor peggio, dell’autodistruzione – dei nostri ragazzi e ragazze. Li vediamo persi, annientati dalle poche speranze, lontani da sogni e ambizioni; ancora peggio quando a diventare padroni delle loro vite sono le droghe, l’alcool, le dipendenze.

Piangeva Maria sotto la croce, piangono tante mamme e tanti papà; quante volte mi è capitato di vedere le lacrime di una mamma, sono le più faticose, le più ricche d’amore.

Eppure, a volte, la fase del dolore e della disperazione dobbiamo abbracciarla. Lo ha fatto Maria, non è stata esclusa da questa emozione. Accompagniamo nei momenti più tristi i nostri giovani, non lasciamoli soli, appesi nelle loro croci.

La Pasqua dell’educatore – il giovedì: servizio e dono

Cerco nelle storie e nei libri che leggo l’aspetto educativo, un po’ per passione, un po’ per deformazione professionale. Non sono esenti da questo i testi evangelici, reputo Gesù un grande maestro al di là dell’aspetto divino che parla solo alle persone con fede.

I testi e i riti della Pasqua quest’anno mi suggeriscono più di uno stimolo. Il giovedì è il giorno della lavanda dei piedi e dell’istituzione dell’Eucaristia. Un maestro come Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli indica la direzione anche per insegnanti ed educatori: l’amore è servire. Colui che insegna, colui che è maestro/a deve abbassarsi verso i propri alunni, mettersi al servizio; scendere dal trono – l’autoritarismo genitoriale, la cattedra – per farsi umili. Noto, invece, quanti, tra genitori e docenti (soprattutto), amano essere serviti e talvolta anche riveriti. Il messaggio è chiaro, Gesù lascia sconcertati anche i suoi amici, qualcuno non riesce ad accettare questo gesto da servo. Per regnare è necessario servire, scendere dal proprio trono.

Poi c’è il dono dell’Eucaristia. E’ il dono totale di sé stessi, corpo e sangue. Un pane che resta, un vino che non perde il sapore. Anche qui il messaggio mi pare chiaro: donarsi, sempre. L’amore ha nella generosità la sua massima espressione. Un educatore deve donarsi, deve offrire se stesso sempre, ben oltre i limiti del suono della campanella.

In questo giovedì mi porto dietro due parole: servizio e dono. La vita di un educatore è soprattutto questo.

Un padre sognatore

C’era un uomo di nome Giuseppe. Il suo lavoro era il falegname. Da piccolo pensavo che mio padre, il cui nome era Giuseppe ed era un artigiano abile anche lui nel lavorare il legno, avesse qualche attinenza con San Giuseppe. Nella mia mente di bambino avevo costruito questo collegamento di fantasia.

È davvero piena di poesia e romanticismo la vicenda di San Giuseppe. Spesso l’arte ce l’ha mostrato nel modo peggiore: anziano, pensieroso, distaccato, a volte addirittura assente nei quadri della natività. Nelle nostre chiese troviamo tante luci e candele in onore di Maria, mentre San Giuseppe è posizionato in qualche angolo umido e poco illuminato, (sempre ammesso che ci sia una sua statua.) Potrebbe sembrare a tutti gli effetti una figura minore nella storia del cristianesimo.  

Di lui non si sa molto a parte che appartenesse alla stirpe di David, nato a Betlemme, falegname di mestiere e che la sua promessa sposa ad un certo punto gli comunica di aspettare un figlio dal Signore. Cosa farebbe un altro uomo? Si porrebbe certo molte domande, forse opterebbe per il ripudio. E invece lui no, Giuseppe crede nei sogni. Doveva essere un sognatore: viene tranquillizzato nel sogno e sempre da un sogno apprende che doveva mettere in salvo il Bambino Gesù dalla furia omicida di Erode. Ama la sua sposa Maria e poi parte per l’Egitto, perché chi crede nei sogni crede nell’amore e sa proteggere, affidandosi alla volontà di Dio.

Di Giuseppe poi non sappiamo più nulla. Nessuna parola nei vangeli, nessuna notizia neanche sulla sua morte; i cristiani lo invocano per una “buona morte” dal momento che si suppone si fosse spento vicino a Maria e Gesù.

San Giuseppe era quindi il padre ‘terreno’ di Gesù. Nel silenzio e nell’umiltà ha svolto il suo lavoro di padre; non doveva essere facile essere il papà di Gesù, nonostante tutto ha accettato questo ruolo facendosi piccolo davanti a Gesù. Addirittura, leggiamo nel Vangelo, quando gli abitanti della sua patria vedono arrivare Gesù si domandano “Non è questi il figlio del falegname?” (Mt 13,55), come se essere figli di un carpentiere volesse essere in una condizione disprezzabile.

La festa del papà cade nella memoria liturgica di San Giuseppe. Temo che quella poca considerazione di San Giuseppe di cui parlavo in apertura è la stessa che si proietta nei padri del nostro tempo; nella storia della pedagogia il padre è sempre stato il grande assente, impegnato nel portare a casa uno stipendio, estraneo all’educazione dei figli e alle vicende domestiche. Ho avuto questa triste sensazione quando ho dovuto cercare su internet delle poesie sul papà per questa giornata: ne esce un quadro desolante e deprimente.

Ho chiesto ai miei alunni di descrivermi in poche parole il loro papà. C’è un affetto sincero e malinconico nei confronti di molti papà, costretti a volte ad assentarsi per lavoro, altre volte presi e persi in mille cose. Mi piacerebbe vedere dei padri credere nei sogni, proprio come san Giuseppe, per amare e difendere, vivere e lottare, ridere e soffrire con i figli.

Quando il parroco parla male degli amici

Il miracolo del paralitico sanato (Mc 2,1-12) è uno dei passi evangelici che da sempre mi ha maggiormente entusiasmato. Non tanto per i gesti miracolosi di Gesù, non nuovo alle guarigioni. Ciò che più mi colpisce è la determinazione degli amici del malato che arrivano a calarlo dal tetto pur di offrirgli una speranza di salvezza; fin da bambino ho immaginato questi uomini forzuti, decisi, legati alla vita di quell’uomo malato che nella cultura del suo tempo era anche considerato un peccatore.

Nel commentare questa pagina, durante una lezione in una classe quarta, alcuni bambini hanno chiesto la parola con il volto spaesato e turbato. Uno di loro mi ha detto: “maestro, il nostro parroco in chiesa ha detto che degli amici non possiamo fidarci, perché prima o poi se ne andranno tutti“. Il loro turbamento è diventato il mio; ero deluso più che sorpreso dal momento che in più di un’occasione ho avuto modo di ascoltare le posizioni estreme di questo poco illuminato sacerdote.

I bambini credono nell’amicizia, la loro vita si basa sulla certezza di avere una famiglia e degli amici; non hanno altro per costruirsi un presente e un futuro. Ho detto loro che forse il parroco ha voluto – maldestramente – mettere in evidenza che Gesù è il vero amico… Ma anche qui mi sono chiesto: perché dobbiamo far passare ai bambini il concetto che Gesù è un amico, soprattutto dopo aver detto che gli amici se ne vanno? Sarebbe il caso di evitare queste visioni fiabesche: io con un amico ci parlo, vado allo stadio, ad un concerto, ci discuto, mi confronto, forse ci posso anche litigare, mentre un Dio non può essere un amico… è Dio, molto di più di qualsiasi altra cosa.

Il problema è che ai nostri bambini parlano alcuni sacerdoti che non conoscono il loro mondo, legati ad un’idea di infanzia totalmente lontana dal loro vissuto; ancor di più pretendono di intercettare i loro pensieri e i loro valori.

Trovo davvero avvilente che ad un bambino vengano messi in secondo piano valori importanti del loro vissuto, pur di far spazio ad un Dio che dovrebbe invadere ogni campo della vita. Il miracolo del paralitico insegna tutt’altro: dei buoni e veri amici possono portarti da Dio. E magari restano con te per festeggiare.

Ho meritato il tuo castigo?

Nella bellissima intervista di Papa Francesco andata in onda domenica sera nel programma di Fabio Fazio, tra i tanti passaggi, uno in particolare ha attirato la mia attenzione. Papa Francesco ha posto l’attenzione su una frase contenuta nell’atto di dolore: “ho meritato i tuoi castighi”. Il Pontefice dichiara di apprezzare maggiormente l’espressione “perché peccando ho rattristato il tuo cuore”, aggiungendo anche che Dio “ci castiga accarezzandoci”.

E’ un’espressione che anche a me non piace. “Castigo” nel linguaggio corrente viene inteso come una punizione; quante volte abbiamo sentito il bambino che è stato messo in castigo! Pur essendo in disuso il suo significato va in tal senso. Nel pronunciarla nell’Atto di Dolore ci viene in mente l’immagine di noi peccatori severamente puniti per il male che abbiamo commesso da un Dio tutt’altro che misericordioso, anzi, piuttosto austero e accigliato. La bellissima immagine del Dio misericordioso che Papa Francesco ha presentato in questi anni – culminata nel Giubileo straordinario della misericordia – sembra non trovare spazio.

Eppure la parola castigo non è così severa. La sua origine latina va in una direzione opposta a quella della severa punizione: “rendere puro”, un sinonimo di “corretto”. Contestualizzato nella preghiera in questione il penitente afferma “di aver meritato che Dio ci renda puri”! Cambia, e di tanto, il significato; da qui l’espressione di Papa Francesco che Dio ci punisce accarezzandoci.

Tuttavia molti di noi intendono il castigo come una punizione e non come una correzione. A dire il vero non è l’unica espressione discutibile che troviamo nelle nostre preghiere, la lista sarebbe piuttosto lunga. La lingua cambia e così andrebbero adeguate anche alcune formule discutibili se non addirittura fuorvianti.

Le madonnine di Don Cesare

Da bambino c’era una bellissima tradizione che porto nel cuore come un ricordo vivo e ricco di emozione, anche a distanza di anni.

Mia madre, durante il mese di maggio – che per i cristiani è un mese mariano – mi portava quasi tutti i pomeriggi nella cappellina della mia parrocchia a Roma; ad aspettarci c’era il nostro parroco, don Cesare Virtuoso, un uomo austero e di altri tempi. Nonostante l’aspetto severo aveva una grande capacità di comunicare con noi bambini, l’affetto che provava per noi era ricambiato, seppur nel rispetto delle dinamiche relazionali di quegli anni.

Don Cesare ogni giorno della settimana ci radunava per recitare un mistero del rosario; in “palio” metteva delle Madonnine che ognuno di noi poteva portare a casa e tenerle in famiglia fino al giorno successivo. Le statue della Madonna erano poste all’interno di teche in legno, con tanto di sportelli, alte circa trenta centimetri. Alla fine della preghiera don Cesare estraeva a sorte dieci nominativi e coloro che venivano estratti potevano portare a casa l’ambita statuetta. Ovviamente i bambini che la prendevano il venerdì erano felicissimi perché la Madonnina sarebbe rimasta a casa in famiglia fino al lunedì. Queste piccole Madonne giravano così di casa in casa, chissà quante famiglie le hanno accolte e quanto bene possono aver portato.

Chiedere a dei bambini di recitare tutto il rosario era improponibile, don Cesare però aveva pensato che se dal lunedì al venerdì recitavamo un mistero al giorno, alla fine della settimana avremmo completato il rosario. Geniale!

Ero affezionato a quel momento, così come ero legato a quella cappellina. Nonostante i tempi siano passati i ricordi restano, ancor di più perché oggi sarebbe improponibile proporre qualcosa di simile ai nostri bambini, sempre pieni di impegni e appuntamenti.

Il ricordo di quelle statuette vive in me, chissà dove sono andate a finire. Di sicuro la loro presenza silenziosa, discreta e affascinante vive nei cuori dei bambini di allora che si nutrivano di gesti semplici e delle parole di don Cesare: “essere buoni per essere felici”. Una giaculatoria che nel tempo non ha perso il suo valore.

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