Perchè la vita merita di essere raccontata

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Un padre sognatore

C’era un uomo di nome Giuseppe. Il suo lavoro era il falegname. Da piccolo pensavo che mio padre, il cui nome era Giuseppe ed era un artigiano abile anche lui nel lavorare il legno, avesse qualche attinenza con San Giuseppe. Nella mia mente di bambino avevo costruito questo collegamento di fantasia.

È davvero piena di poesia e romanticismo la vicenda di San Giuseppe. Spesso l’arte ce l’ha mostrato nel modo peggiore: anziano, pensieroso, distaccato, a volte addirittura assente nei quadri della natività. Nelle nostre chiese troviamo tante luci e candele in onore di Maria, mentre San Giuseppe è posizionato in qualche angolo umido e poco illuminato, (sempre ammesso che ci sia una sua statua.) Potrebbe sembrare a tutti gli effetti una figura minore nella storia del cristianesimo.  

Di lui non si sa molto a parte che appartenesse alla stirpe di David, nato a Betlemme, falegname di mestiere e che la sua promessa sposa ad un certo punto gli comunica di aspettare un figlio dal Signore. Cosa farebbe un altro uomo? Si porrebbe certo molte domande, forse opterebbe per il ripudio. E invece lui no, Giuseppe crede nei sogni. Doveva essere un sognatore: viene tranquillizzato nel sogno e sempre da un sogno apprende che doveva mettere in salvo il Bambino Gesù dalla furia omicida di Erode. Ama la sua sposa Maria e poi parte per l’Egitto, perché chi crede nei sogni crede nell’amore e sa proteggere, affidandosi alla volontà di Dio.

Di Giuseppe poi non sappiamo più nulla. Nessuna parola nei vangeli, nessuna notizia neanche sulla sua morte; i cristiani lo invocano per una “buona morte” dal momento che si suppone si fosse spento vicino a Maria e Gesù.

San Giuseppe era quindi il padre ‘terreno’ di Gesù. Nel silenzio e nell’umiltà ha svolto il suo lavoro di padre; non doveva essere facile essere il papà di Gesù, nonostante tutto ha accettato questo ruolo facendosi piccolo davanti a Gesù. Addirittura, leggiamo nel Vangelo, quando gli abitanti della sua patria vedono arrivare Gesù si domandano “Non è questi il figlio del falegname?” (Mt 13,55), come se essere figli di un carpentiere volesse essere in una condizione disprezzabile.

La festa del papà cade nella memoria liturgica di San Giuseppe. Temo che quella poca considerazione di San Giuseppe di cui parlavo in apertura è la stessa che si proietta nei padri del nostro tempo; nella storia della pedagogia il padre è sempre stato il grande assente, impegnato nel portare a casa uno stipendio, estraneo all’educazione dei figli e alle vicende domestiche. Ho avuto questa triste sensazione quando ho dovuto cercare su internet delle poesie sul papà per questa giornata: ne esce un quadro desolante e deprimente.

Ho chiesto ai miei alunni di descrivermi in poche parole il loro papà. C’è un affetto sincero e malinconico nei confronti di molti papà, costretti a volte ad assentarsi per lavoro, altre volte presi e persi in mille cose. Mi piacerebbe vedere dei padri credere nei sogni, proprio come san Giuseppe, per amare e difendere, vivere e lottare, ridere e soffrire con i figli.

Il padre che perdona

“Il padre che perdona entra in dialogo con le colpe dei figli: le riconosce, le interroga, ci riflette, si domanda come può offrire un aiuto per superarle, ma sa anche aspettare, sa confidare nella capacità di crescere e sa accettare di non poter risolvere magicamente le difficoltà più grandi”. (Antonio Mazzi, Nel nome del padre)

Sentiamo spesso parlare di perdono. A volte sembra essere diventato un prodotto commerciale nei fatti di cronaca nera: viene ammazzato qualcuno/a, si chiede al parente più prossimo della vittima se è disposto a perdonare. Troppo facile.

Nel libro di don Mazzi, “Nel nome del padre”, il buon prete ultranovantenne solo per l’anagrafe, ci propone una lunga riflessione sulla paternità. Tra i tanti aspetti analizzati mi è piaciuto il padre che perdona, capace di entrare in dialogo con i figli, analizzando, riconoscendo, riflettendo sulle colpe. La sua capacità di attesa, di confidare nella crescita farà di lui un padre diverso dagli altri. Ho sempre cercato di trasmettere ai miei figli che dietro ogni loro marachella l’ultima parola era sempre il perdono.

Deve essere così, un padre misericordioso (letteralmente “che ha pietà con il cuore”) è colui che accetta le debolezze dei figli che poi sono anche le sue. Per le mamme è diverso, il loro rapporto viscerale cambia naturalmente l’approccio educativo.

Il perdono ha in sè la parola dono. Può fare la differenza nei rapporti quotidiani genitori-figli. Il perdono forgia l’anima e la rafforza, nel riconoscere il proprio errore un bambino/ragazzo sperimenterà anche la consolazione. E’ ciò che abbiamo sempre cercato e che continueremo ad attendere.

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