Perchè la vita merita di essere raccontata

Categoria: sport

“Andrè, dimme de Immobile…”

“Andrè, dimme de Immobile, che ne pensi?”. E’ la domanda di un amico tifoso che ho incontrato per strada. Tra gli sportivi di fede laziale non si parla d’altro, Immobile che lascia la Lazio è un colpo che non ci aspettavamo. Almeno non con questo impatto.

“Non esistono più le bandiere” è una frase retorica che si dice in questi casi; quei giocatori simbolo che hanno deciso di trascorrere tutta la loro carriera in una squadra soltanto sono merce rara, appartenuti ad un calcio che non c’è più. Raramente vediamo calciatori restare a lungo in un team.

Il tifoso però si affeziona ai propri idoli, perché abbiamo bisogno delle persone in cui credere e a cui aggrapparci: abbiamo bisogno di un capitano, di un cantante, di un eroe reale o inventato, di uno scrittore, di un pittore, di un maestro, di un innocente come di un colpevole, qualcuno a cui affidare una speranza, un sogno. E così ci leghiamo: ai cantanti, ai calciatori, agli eroi… fin da bambini, per tutta la vita questo non cambia.

Ed ora che il nostro ex-capitano ha deciso di chiudere la carriera in Turchia sentiamo un vuoto dentro; lo sentivamo uno di noi, un romano adottato, a cui molti di noi erano legati, come un ragazzo della porta accanto, quel capitano che fa sempre gol. Però ho imparato che non bisogna mai fidarsi dei baci alla maglia, delle dichiarazioni d’amore alla tifoseria, ne ho visti tanti andare via. Tuttavia con Immobile avevo fatto un’eccezione: un bambino a scuola mi aveva regalato la sua figurina e quella maglia 17 faceva da sfondo alla cover del cellulare. Ne andavo fiero, provavo la spavalderia di quando bambino… Al termine dell’ultima partita di campionato – durante un giro di campo di Immobile con figli al seguito – ho scattato la foto che vedete, non potevo immaginare fosse l’ultima.

Si va avanti lo stesso. Certo, vorremo un po’ di poesia ogni tanto, sapere che i soldi e il successo talvolta possono essere secondari, soprattutto per chi guadagna cifre importanti. Non è così, è doveroso tornare con i piedi per terra.

Torneremo ad innamorarci di un calciatore che crederemo un simbolo, forse.

Il tricolore sulla tutina

Oggi è il 12 maggio. Non una data qualsiasi. Almeno per chi è laziale. Esattamente 50 anni fa la mia squadra del cuore vinceva il primo scudetto della sua storia. Ed io dov’ero? Cosa ricordo di quella giornata? Niente, non ricordo niente perché ero nel pancione di mia madre, mancavano 5 mesi alla mia nascita, dovevo essere lungo più o meno 22 centimetri… troppo poco ma abbastanza per cucirmi quello scudetto addosso.

Quando sono nato, ad ottobre, la mia squadra giocava con il tricolore sul petto e anche se io non lo sapevo, simbolicamente, ce l’avevo cucito sulla tutina.

Di quella squadra ho solo i ricordi di chi l’ha vissuta e ciò che sono riuscito a ricostruire nel tempo, sia dal punto di vista sportivo che sociale. Erano gli anni della Roma di piombo, del terrorismo, di una svolta del nostro Paese che era nella fase calda; dopo il ’68 c’eravamo noi degli anni ’70, c’ero io, piccolo e inconsapevole di quanto succedeva accanto a me.

Della Lazio di Maestrelli ricordo il poster in casa, con quegli undici giocatori accasciati, il pallone bianco con i pentagoni neri. Una foto semplice. Tra i tanti spiccava Chinaglia, ma soprattutto un angelo biondo, Luciano Re Cecconi di cui mio padre mi raccontava le gloriose gesta sportive e il suo tragico epilogo. Mi parlavano del dolore di mio fratello una volta appresa la notizia della sparatoria in cui perse la vita per un tragico scherzo. Di Maestrelli ricordo un disco 33 giri in cui c’erano le voci storiche di quello scudetto e lì si parlava di lui, di quella squadra così matta eppure così affascinante. Il resto l’ho ricostruito negli anni con i documentari e le interviste dei protagonisti di allora.

Mio padre seguiva gli allenamenti da vicino, viveva quella squadra e quel calcio in modo attivo. I tifosi erano i veri supporter, non erano clienti da spennare.

Poi sono cresciuto e quello scudetto sul petto era solo un vago ricordo mentre io, circondato da romanisti che festeggiavano lo scudetto ed una squadra stellare, soffrivo per una squadra che faceva su e giù dalla A alla B. Era difficile essere un bambino laziale a quel tempo, ma ho resistito, non potevo tradire quei colori e la lazialità di mio padre e della mia famiglia.

Oggi si ricorda quella giornata; simbolicamente torno nel pancione di mia madre, per godermi quei suoni attutiti della festa. Tornerò a nascere, tornerò a cercare quella squadra, quei campioni che mi hanno fatto nascere con il tricolore sulla tutina!

Perché proprio il portiere?

«Ma perché proprio il portiere?» . Andrea fu come se si illuminasse: «Perché è diverso da tutti gli altri, è folle ma anche un po’ solo. Perché è come un principe con il suo regno: gli altri si azzuffano per il campo, lui invece è il signore del suo spazio, è libero, non dipende da nessuno. E poi è piú facile segnare che parare e a me piacciono le cose difficili».

Roberto vecchioni, tra il silenzio e il tuono

Dei tanti ruoli che si possono occupare nel rettangolo di gioco, il portiere si distingue dagli altri: per la divisa, per la posizione, perché può toccare il pallone con le mani, perché spesso è lì da solo, l’ultimo baluardo della squadra, colui in cui tutti i tifosi ripongono la speranza della parata miracolosa.

Nell’ultimo libro di Roberto Vecchioni “Tra il silenzio e il tuono”, in una delle tante deliziose lettere, si parla di Andrea, che aveva scelto il ruolo del portiere. Colui che deve fare le cose difficili, perché parare è più difficile di segnare. Sarà, ma quando da piccoli chi finiva in porta era il più debole della squadra, quello che non ci voleva mai stare perché un gol passa alla storia, una parata decisamente meno. Addirittura una papera può togliere il sonno per diverse notti, forse per anni.

Mi soffermo spesso a guardare il portiere: immagino i suoi pensieri, deve riporre molta speranza nella difesa capace di neutralizzare gli attacchi degli avversari, così come deve affidarsi a tecnica, istinto e un po’ di pazzia. Sì, perché per stare lì a farsi prendere a pallonate ci vuole coraggio e un pizzico di follia. Faccia a faccia, senza paura.

Quei giovani di talento

Sinner e Angelina Mango. Sono i volti nuovi di questa Italia 2024, volti freschi e giovani. Nel campo sportivo e musicale hanno portato una ventata di speranza.

Di entrambi ho apprezzato il valore e il legame con la famiglia. Non sono sfuggiti all’occhio dell’educatore alcuni dettagli importanti. Sinner è un ragazzo che per arrivare a vincere si allena tanto, versando sudore, tanto da rifiutare anche eventi mondani come il Festival “per allenarsi”, ha detto. Ringrazia ciò che natura gli ha dato, il talento, ma anche la famiglia che lo ha aiutato a coltivare i propri sogni. Ma un vero campione non è mai pago del successo, vuole continuare a migliorarsi, studiando e impegnandosi.

Così fanno anche i musicisti. La vetta delle classifiche e il trionfo si sono rivelati spesso malvagi profeti: qualcuno tocca il cielo con un dito e poi torna nel dimenticatoio, semplicemente perché privi di talento. Una famosa parabola ci dice che quel talento va fatto fruttare, altrimenti muore sotto terra.

Penso ad Angelina Mango, figlia di un cantautore amato ma forse non del tutto apprezzato pienamente dal grande pubblico. La ragazza non è la solita “figlia di” arrivata lì per il cognome; in questo caso la famiglia ha avuto un ruolo importante perché Angelina è cresciuta nella musica, è la figlia di Pino perché da lui ha ereditato il talento, sa tenere il palco, trasmette emozione, musicalmente perfetta. Se studierà ancora quel talento che ha nel sangue la porterà lontano; ne sono certo e glielo auguro di cuore.

Sinner e Angelina sono i giovani di talento che ci fanno ben sperare, quelli che sanno fare perché talentuosi. Abbiamo bisogno di giovani capaci, non quelli da sei meno. Solo così avremo persone felici di aver messo a frutto ciò che la natura gli ha donato.

Sinner e l’importanza di avere “certi genitori”

«Ho fatto tanti sacrifici ma ne hanno fatti anche loro [i genitori], lasciare il proprio figlio a 13 anni non è semplicissimo. A Vienna abbiamo fatto colazione insieme per tutta la settimana ed è stato strano perché non succedeva da anni, quando torno a casa, in montagna, non sto mai più di un paio di giorni quindi un’intera settimana di colazioni con i miei è stato diverso, buffo, ma anche bello e speciale. Averli vicini significa tanto per me, però per come conosco i miei genitori per loro è più importante vedermi felice che alzare una coppa. Se mi vedono felice, ecco, abbiamo già vinto».

Sinner è il vincitore dell’Australia Open. Ragazzo serio, pacato, sorridente. Non manca un pensiero per i propri genitori; è bello che un atleta sugli scudi abbia avuto la sensibilità di ricordare i sacrifici dei genitori che gli hanno permesso di arrivare al traguardo che ha sempre sognato.

Ha ricordato, dopo il successo di Vienna che il “segreto” per ritrovare la serenità e lo spirito giusto è stato avere la possibilità di fare colazione con i propri genitori, capaci di intuire il talento del proprio ragazzo e a soli 13 anni permettendogli così di volare. Oggi molti tredicenni non sanno neanche farsi il letto, ma non è colpa loro, piuttosto di quei genitori che si rifiutano di farli crescere.

Quante volte abbiamo sentito padri e madri rammaricati perché non vedono la disponibilità da parte dei propri figli a portare avanti “l’azienda di famiglia”; non necessariamente bisogna riversare i propri desideri per il futuro alle nuove generazioni. Piuttosto è importante che la famiglia, ma gli educatori tutti (scuola compresa) possano aiutare i giovani a scoprire la propria vocazione, sostenerli affinché possano realizzare i propri sogni. Sempre che ne abbiano uno.

Gigi Riva, la bandiera, l’uomo, l’umiltà

Non posso raccontarvi di Gigi Riva perché non l’ho vissuto. Così come non posso parlarvi di Long John, Giorgio Chinaglia, “Giorgione” per noi tifosi laziali. Non posso neanche raccontarvi di Pelè. Tutti calciatori che hanno terminato la loro carriera a ridosso della mia nascita, talenti di cui ho sentito raccontare le gesta dalla tv o da mio padre come nel caso di Chinaglia, mito che ancora vive nei cuori di molti di noi.

Eppure la scomparsa di questi grandi talenti sembrano battere il tempo; del resto i miti fanno questo, la loro popolarità non viene scalfita negli anni, addirittura in certi casi aumenta.

La morte di Gigi Riva ha avuto, come giusto, molto risalto; ricordo di aver visto tempo fa un bellissimo documentario che raccontava la storia di questo campione impermeabile ai richiami della fama e del denaro. Lo testimonia la foto che accompagna questo articolo: “Riva e Chinaglia reti a mitraglia”. Due campioni accomunati da una carriera non in squadre di alto rango per l’epoca, ma che hanno legato la loro storia alla comunità sportiva che li ha accolti. Esempi di umanità e non di gloria esibita.

Una “bandiera” come si dice nel gergo calcistico; Gigi Riva che non era nato a Cagliari ha fatto della città sarda la sua casa, legando per sempre il suo nome ai colori rossoblù. Per gli innamorati di calcio le bandiere sono ormai rarità. Riva no; esplosivo, immarcabile, vincente, determinante, con i suoi gol ha regalato gioie e soprattutto un esempio di coerenza e umiltà.

Quando muoiono certe leggende è bene alzarsi. Non solo al campione, all’uomo, alla bandiera, al simbolo.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén